di Anna Fasoli

È vero, se ne parla ormai da quasi un quarto di secolo, con un andamento pericolosamente “cronico”, con acme quando gli eventi accadono, poi si scatena la polemica, il cordoglio, la rabbia, e si ritorna al silenzio.
Uno scenario impietoso, quello dell’Italia di fronte agli eventi catastrofali. Così sono chiamate le condizioni – terremoto, guerra, insurrezioni, tumulti popolari- (ma la giurisprudenza consolidata estende il riferimento in modo che li ricomprenda tutti, come alluvioni, grandine, maremoti e simili), che, ai sensi dell’articolo 1912 del Codice Civile, vengono escluse dalle polizze danni “salvo patto contrario”. Ma mentre i politici litigano, i giornalisti fanno del sarcasmo, spingendosi a chiamare un’eventuale copertura obbligatoria nientemeno che tassa sulla iella, queste situazioni stanno di fatto mettendo in ginocchio i bilanci del Belpaese.
Certo, il quadro è complesso a livello globale. Basti pensare che nel 2012 le perdite economiche causate nel mondo dai 295 eventi catastrofali ammontano a 200 miliardi di dollari. Erano persino di più nel 2011, quando il numero delle catastrofi è stato di 325 (conteggiando eventi naturali e disastri c.d. man-made), con perdite economiche per 370 miliardi di dollari e oltre 35.000.
Per il 2011 si è altresì proceduto a un bilancio ulteriore: di questi 370 miliardi di dollari, 116 sono stati corrisposti dagli assicuratori (riportando la cifra più alta di risarcimenti per le Compagnie, dopo il 1970). Insomma a fare i conti, sottraendo questo esborso a carico delle Compagnie dal costo totale dei danni, risulta che, per il solo 2011, ben 254 miliardi di dollari sono diventati costo sociale.
In altre parole, questo gap tra bacino assicurato e non incombe come un boomerang sui cittadini, sulle loro tasche, sulle loro tasse.
Paese che vai, legislazione che trovi (ma non in Italia)

In questa cornice generale, che coinvolge il mondo intero, l’Italia si presenta con un’aggravante ed è l’assenza di una regolamentazione legislativa (anche solo parziale) sulla copertura di danni provocati da catastrofi naturali.
Poiché dal 1970 ad oggi, dati alla mano, tali circostanze, purtroppo, si sono quadruplicate, ecco che non avendo alcun meccanismo automatico, nessun “paracadute” di salvataggio, ci si trova costretti ad un intervento d’urgenza, con decreti dell’ultimo minuto, che, senza offrire servizi soddisfacenti per i cittadini colpiti, costano alle casse pubbliche cifre spaventose.
Si parla di 3 miliardi e mezzo di euro spesi mediamente in Italia ogni anno per riparare i danni causati da catastrofi naturali.
Né il dato può stupire: si pensi che per il terremoto all’Aquila, degli oltre dieci miliardi di danni, solo 400 milioni erano coperti da polizze, ovvero il 4% della perdita. Contro una media mondiale del 20%. In Veneto, con l’alluvione del 2012, non è andata un granché meglio: meno del 10% degli edifici e attività colpite godeva di una copertura assicurativa.
Niente, neppure questo è bastato. Si continua a nascondere la testa sotto la sabbia.
Non così i cugini francesi. La legislazione d’Oltralpe prevede infatti che i privati che stipulano una polizza incendio obbligatoriamente devono sottoscrivere una clausola di garanzia contro le catastrofi naturali. A premio fisso, corrispondente cioè al 12% del contratto base. E se un evento di portata enorme si verifica a supportare l’assicurazione privata interviene la CCR (Caisse Centrale de Reinsurance), pubblica, e dunque con fondi statali.
Un sistema ibrido, dunque, che ha spinto il governo a imporre, a partire dal 1995, agli enti locali di dotarsi di “Piani di prevenzione del rischio naturale” e ha assegnato alle compagnie assicurative (dal 1997) la facoltà di rifiutare le coperture ai beni che si trovino in aree definite ad alto rischio, se questi insediamenti sono stati realizzati senza rispettare le regole indicate nei piani.
Non male, viene da pensare, soprattutto se si considera che in Italia il 64% degli edifici non è costruito secondo criteri antisismici.
Al pari della Francia, anche Belgio e Spagna hanno adottato un sistema c.d. semi-obbligatorio.
Sistema di contingent capital, invece, per Messico e Caraibi, i cui territori presentano ampio rischio. Il meccanismo scelto, che garantisce la ricostruzione dei beni danneggiati e si occupa delle esigenze della popolazione in caso di emergenza, è finanziato dal Governo Federale tramite il Fondo per i disastri naturali (FONDEN) destinato a risarcire i danni da catastrofi naturali eccedenti la capacità di intervento previsti nei budget dei singoli Stati messicani.
Per evitare la volatilità dei fondi, è stato creato un programma riassicurativo (riassicurazione più acquisto di cat-bond) con Swiss Re, tramite il quale lo Stato incassa dei pagamenti se la magnitudo del terremoto supera un limite predefinito.
Insomma gli Stati non possono stare a guardare.
E l’Italia allora?
Voglio chiarirlo subito, non credo che il dito vada puntato sull’ incoscienza dei proprietari, o su fatalismo individuale, tipico di un secolo ormai sorpassato. Semmai il problema è di informazione.
Ma là dove l’informazione esiste, la gente chiede polizze, la gente vuole protezione ed è disposta a pagare per ottenerla. Certo, deve trattarsi di una cifra possibile per le tasche di chi la spende. Deve trattarsi di un progetto fattibile per le famiglie italiane, per gli imprenditori italiani che si trovano a fare i conti con una situazione certo non rosea, e con un carico fiscale che raggiunge, sono dati recenti, ben il 52% dei redditi percepiti.
Un’indagine del Cineas, il Consorzio Universitario del Politecnico di Milano che coopera per la diffusione della cultura del rischio, ha rivelato che oltre la metà dei residenti in aree a rischio catastrofale (nello specifico terremoto) sarebbe disponibile a sottoscrivere una polizza a difesa della casa contro le calamità naturali, se tale polizza avesse un costo “ragionevole”, entro i 200 €. Ma la percentuale di adesioni cresce oltre il 70% se lo Stato defiscalizzasse il costo.
Eccoli, i nostri italiani. Eccoli, mi sento di dire, i nostri clienti. Di un mercato che c’è e che è consapevole, di un mercato disposto a spendere per una voce che ritiene giusta.
Tra Stati e Compagnie di Assicurazione un dialogo difficile
E qui si apre l’altro grande capitolo: quello del dialogo (auspicato) tra Stato e Compagnie Assicurative. Perché è chiaro che quel gap tra costo sociale e danni sostenuti dalle assicurazioni non può certo rovesciarsi tutto nelle tasche delle compagnie, che sono imprese e dunque che hanno, per natura, uno scopo di lucro, sebbene svolgano sin dalla loro nascita,- e lo abbiamo ormai visto in sempre più occasioni-, una funzione mista, ossia anche di grande collettore di energie e di propulsore a livello economico e sociale.
Allora la domanda è: come possono le Compagnie farsi carico della richiesta di protezione dagli eventi catastrofali che viene dai cittadini, dalle aziende, dalle fondazioni, dai commercianti, senza che questa operazioni diventi esageratamente onerosa per i singoli interessati, né in perdita per le assicurazioni?
In altre parole, la grande sfida è quella di trasformare il problema (di alcune aree) nell’innovazione strategica che coinvolga in fondo tutti. Come abbiamo visto, se delle strategie preventive non vengono attuate, il costo di ripristino di aree colpite continuerà a pesare in maniera spaventosa nei bilanci dello Stato Italia, e quindi in quello di ogni singolo cittadino, ovunque si trovi ad abitare.
Non solo: se per evitare i
l default dei bilanci assicurativi, la strategia di compagnia diventa: niente polizze per tutti, ecco che di nuovo, la problematicità di un’area ristretta induce a diffondere a macchia la scelta, privando anche situazioni facilmente supportabili di scelte previdenziali desiderate.
Durante la conferenza RIO+ dello scorso anno, il gruppo Allianz presentò un modello previsionale che simulava una comparazione tra i costi dei danni provocati nel decennio 1970-1979 e quello 2010-2019. Un’autentica debacle: l’aumento sarebbe di 20 volte.
Una parte di queste perdite, si chiariva, sarebbe legata a fenomeni naturali come i terremoti. Ma un’altra è collegata all’aumento della minaccia climatica che si tradurrebbe in un maggior rischio uragani e alluvioni. Si ipotizzava, per esempio, un aumento di 15 centimetri della media dei mari tale da tradursi, per l’area di New York, Baltimora, Boston e Philadelphia, in un’esposizione economica superiore a 7 mila miliardi di dollari
Come possono (e sarebbe poi giusto?) le compagnie fare fonte da sole a tutto questo?, era la domanda.
Semplice, chiosava la risposta: escludendo la copertura di alcuni rischi (cioè proprio quelli che servono) o rivedendo le tabelle dei prezzi. A meno che gli Stati non si rendano conto di questa nuova voce di bilancio e non collaborino, loro per primi, in un’ottica di prevenzione, anziché in quella di emergenza.
Lì sta la miopia, soprattutto perché il tema assicurativo non sembra favorevole a calamitare consensi (politici). E questo perché manca una cultura della prevenzione a livello civico, di gruppo. Non manca invece a livello di singolo.
Cultura del rischio = riduzione delle perdite
Lo stanno capendo, i cittadini, volenti o nolenti. Sarà colpa della crisi, che ha reso tutti più accorti. O forse di quel carico silenzioso di paura che si accresce, quando le porte del futuro paiono meno ampie, anche per le generazioni a venire. E allora ecco che si chiedono polizze sulla salute, polizze sulla vita, polizze integrative per la previdenza. E questo accade se e dove si attua informazione.
Informazione, si badi, non “terrorismo emotivo”. Allora oggi in Italia informazione significa anche rendere noto a ben 22 milioni di cittadini che vivono in zone a rischi sismico. Significa spiegare a 5596 comuni sugli 8101 esistenti che il loro territorio è a rischio di frane e alluvioni. Offrendo, al contempo, strategie di gestione e protezione.
Allora sorgerà spontanea la richiesta degli interessati: “che cosa possiamo fare per vivere più tranquilli?”
E lì la “palla” passerà a noi. A noi nelle agenzie, intendo, a noi che con le richieste concrete e urgenti abbiamo da sempre a che fare e che ci scervelliamo per portare delle risposte. Estrapolate, certo, dai dati, dai contratti e dai budget che ci hanno messo a disposizione le Compagnie. Ma anche un pochino, lasciatemelo dire, dal nostro “coraggio di osare”e salire in direzione, e chiedere.
Insomma è dalla base che può muoversi qualcosa e la somma di tanti piccoli gesti potrà avere la forza dirompente che sembra, per ora, bloccata invece nei grandi tavoli di discussione, in alto.
In altre parole credo che la propulsione, la spinta a far girare il meccanismo delle polizze stia nell’ampliare il bacino dell’utenza, degli interessati, e allora anche i numeri (per le Compagnie) saranno più allettanti, i numeri di tante singole esigenze daranno le cifre necessarie per la copertura dell’operazione, per renderla vantaggiosa (a favore di tutti i soggetti coinvolti).
Naturalmente non si tratta di un percorso semplice, né semplice è il nostro ruolo di agenti. Ma era forse semplice scegliere di assicurare un mercantile in rotta verso le Americhe o le Indie nel periodo dei grandi viaggi della metà del Seicento a Londra? Ebbene, allora ci fu qualcuno che ebbe più fiuto (e coraggio, e spirito imprenditoriale di altri). Come ci fu qualcuno, due secoli più tardi, che intuì il potenziale del problema incendio a Chicago e trovò il modo di dare assicurazione a chi ne aveva bisogno.
Oggi tocca a noi. Ancora una volta gli assicuratori sono chiamati a oliare le ruote dell’ingranaggio.
Per farlo volare.


Anna Fasoli

socio UEA