Marco Panara

Giovanni Perissinotto è l’amministratore delegato di una delle maggiori società italiane che dapiùtempo guida il suo gruppo. Enrico Cucchiani è il ceo di Intesa San Paolo da pochi mesi, Federico Ghizzonilo è di Unicredit da un anno e mezzo, Paolo Scaroni è all’Eni dal 2005 come Fulvio Conti all’Enel, Marchionne è ad della Fiat dal 2004 e Giuseppe Orsi guida Finmeccanica da un anno. segue a pagina 8 con un servizio di Paolo Possamai segue dalla prima Perissinotto è in carica dal 2001 e il suo mandato finirà nel 2013. Quello che gli preme è arrivare a quella data con un buon bilancio che punti, archiviato ora il trimestre, a superare 1,8 miliardi di utili e quindi ad aumentare significativamente il dividendo. Il problema, nelle valutazioni di Trieste, non è l’andamento della compagnia ma del suo titolo in Borsa. Quei 9 euro e mezzo di prezzo per azione segnano i rapporti con gli azionisti e nel complesso fanno sentire il gruppo più debole di quanto non sia in realtà. E la ragione, pensano a Trieste, è che dal punto di vista borsistico è decisamente penalizzante essere in certi paesi anziché in altri. Anche se in quei paesi, nel caso in questione l’Italia, non si hapiù del 30 per cento del proprio giro di affari e dei propri investimenti. Nella percezione “anglosassone” questo non conta: quando decidono di “shortare” l’Italia, ovvero di vendere, anche allo scoperto, azioni italiane, si va giù senza troppi distinguo e si vendono le azioni più liquide, ovvero Generali, Intesa San Paolo, Unicredit. Un po’ meno la Fiat, che ormai è percepita come quasi americana. L’intervista deflagrante di Leonardo Del Vecchio, azionista del-le Generali con il 3 per cento, il giorno dell’assemblea, viene letta in quella chiave. Il grande imprenditore che ha creato Luxottica non ama perdere, e con l’investimento in Generali, peraltro incrementato negli ultimi mesi, le perdite sono pesanti. Gli altri azionisti non hanno fatto attacchi, ma il problema del livello del titolo è lì, un dato oggettivo dal quale non è poSsibile prescindere. Anche se Trieste più che colpevole si sente semmai vittima, in buona compagnia peraltro (vedi settore bancario), di meccanismi perversi. Come la valutazione a prezzi di mercato dei titoli in portafoglio, compresi quelli pubblici, il cui spread non dipende né dalle Generali né dalle banche che li possiedono. In consiglio pare che ci sia stata qualche discussione in proposito, con chi chiedeva una forte riduzione dei titoli di stato italiani, operazione che avrebbe portato perdite significative e dato un segnale molto negativo al mercato. E d’altra parte avendo 110 miliardi da investire in Italia come si fa a stare fuori dai titoli di stato? La vendita alla fine non c’è stata. Il consiglio avrebbe detto no ad altre cose. All’investimento in Russia per esempio e ad un altro che si stava studiando in Polonia. Ma il no è stato preso bene. Essendo forti e in crescita in tutto l’Est Europa, è difficile pensare che Generali possa rimanere fuori dal mercato più importante e quindi prima o poi Mosca tornerà ad essere un target. Ma una dialettica in consiglio è una buona cosa, l’amministratore delegato ha il dovere di portare delle proposte poi il consiglio valuta e decide. Va bene così. Quello che non va bene è il modo in cui in molti hanno letto e descritto l’operazione conKellner,la joint venture con Ppf in cui Generali ha il 51 per cento e Kellner la possibilità di uscire nel 2014 al prezzo stimato ad oggi di 2,5 miliardi che Generali dovrebbe pagare per arrivare al 100 per cento. Vista da Trieste, come ribadito in assemblea, quella con Ppf è stata un’ottima operazione: prima di chiuderla il contributo dell’area al margine operativo del gruppo era sotto il 2 per cento, ora è di circa il 13.11miliardo investito rende 200 milioni l’anno in termini di utile netto in quell’area, il 20 per cento. E’ probabile che ci sia un po’ di rimpianto per non averla comprata tutta allora. Non si fece perché non c’erano i soldi e non si è ricorso agli azionisti. Il conforto è che non sarà necessario neanche questa volta, perché per pagare il 49 per cento di Kefiner basteranno la vendita appena firmata della israeliana Migdal per 835 milioni (con 103 di plusvalenza), la parte di utili eccedenti il dividendo del 2011, 2012 e 2013 e altre possibilità allo studio. Né all’orizzonte si vedono opportunitàtali da richiedere un aumento di capitale, che peraltro nessuno si sente di proporre agli azionisti con i corsi del titolo a questi livelli. La navigazione quindi sarà lineare, nei limiti consentiti dalla congiuntura. Crescita organica, contenimento dei costi, investimenti a prezzi più bassi (grazie proprio alla congiuntura) e una politica strettissima di controllo dei rischi. Con questa ricetta si dovrebbe arrivare a fine 2012 con risultati tecnici in linea con i12011 o lievemente migliori ma senza le massicce svalutazioni che hanno segnato il risultato dello scorso anno. Il relativo ottimismo di Trieste deriva dall’andamento dei vari mercati nei quali il gruppo è presente. Anche l’Italia, pur in questi tempi gramissi mi, va benino. Nel settore danni, la parte che riguarda le aziende ha il fiatone perché le aziende in questa fase non investono e tagliano i costi e anche il settore trasporti soffre. Va bene invece per il momento il settore danni con la clientela privata. Nel vita la componente previdenziale mostra una crescita a due cifre, i premi annui tengono, i premi unici invece mostrano una flessione a doppia cifra, segno che alle famiglie non avanza niente o quasi. La Francia, altro mercato importante, dopo essere stato nel 2011 uno dei pochi paesi a raccolta negativa, nel primo trimestre ha mostrato un recupero, che però ora si è fermato in attesa delle scelte fiscali della nuova amministrazione.Va molto bene invece la Germania, che si è messa in ordine per tempo e ora sta spingendo sull’acceleratore. Complessivamente la vecchia Europa, ovvero Italia, Francia e Germania valgono oltre il 70 per cento delle attività del gruppo. La partepiù dinamica e con numeri ormai rilevanti è l’Est Europa, grazie soprattutto a Generali Ppf, che sta dando risultati e soddisfazioni e, come detto sopra, ormai contribuisce al margine operativo per oltre il 10 per cento. Sono paesi “sottoassicurati” e la crescita ha ancora ampi margini anche se la concorrenza si è fatta più aspra. In Asia la crescita è addirittura tumultuosa, grazie anche al fatto che in molti paesi non c’è neanche il cosiddetto “primo pilastro” previdenziale, ovvero la pensione obbligatoria. La gente si rende conto che è necessario prepararsi al futuro e i governi vedono di buon occhio lo sviluppo della previdenza privata. In Cina, dove Generali investe da dieci anni, nel 2011 si è giunti al pareggio, ora ci si aspetta un contributo ai margini crescente. Tra i Bric, in attesa della Russia, intanto il giro si completa con il Brasile, dove Generali è presente da molto tempo ma con una gestione tranquilla. Ora si è deciso per il rilancio con un nuovo presidente e un nuovo amministratore delegato, Josè Ribero, che arriva dai Lloyds, e ci si aspettano belle soddisfazioni anche da lì. Quindi per il momento l’obiettivo sembra essere quello di tenere le posizioni e le quote di mercato in Italia, Francia e Germania e grazie alla crescita nel resto del mondo arrivare ad un nuovo equilibrio nel quale tra 10 anni la vecchia Europa dovrebbe pesare per il 50 per cento delle attività e i paesi emergenti per il rimanente 50 per cento. Non ci saranno acquisizioni rilevanti né aumenti di capitale, e d’altra parte fino ad oggi l’unico sacrificio chiesto agli azionisti è stato una riduzione del dividendo dovuta all’effetto “spread” sul portafoglio. L’altro
fronte è il quadro nazionale, con il salvataggio di Fonsai alle porte e la possibile fusione con Unipol. Questa eventualità non preoccupa le Generali, che avendo fatto operazioni con Ina e con Toro, sanno quanto tempo, fatica, e costi comporta una grande fusione. Per qualche anno, è la tesi di Trieste, avranno altre cose a cui pensare prima di ripresentarsi aggressivamente sul mercato. La vicenda Fonsai-Unipol, però, un effetto immediato e indotto sulleGenerali cel’ha, perchéilleader di quell’operazione è il suo principale azionista, Mediobanca, che è stata messa sotto scrutinio dall’Antitrust proprio per il suo ruolo di azionista di riferimento di Generali, di grande creditore di Fonsaie di ingegnere della fusione di quest’ultima con Unipol. L’effetto diretto è stato che tra Piazzetta Cuccia e Trieste ormai ci si parla meno, un po’ per opportunità e un po’ perché Mediobanca non ha gradito l’incursionedella Palladio di Drago e Meneguzzo insieme alla Sator di Matteo Arpe nell’operazione Fonsai. Il collegamento è che Meneguzzo è considerato vicino a Perissinotto, il quale però ha sempre affermato la sua estraneità all’operazione. Il raffreddamento dei rapporti è accentuato dal fatto che l’amministratore delegato di Mediobanca, Alberto Nagel, in ottemperanza al divieto di sedere nel consiglio di amministrazione di società che hanno attività anche parzialmente concorrenti, ha lasciato la vicepresidenza di Generali e ha un primo segnale concreto nella decisione di Generali di uscire dal patto di sindacato Rcs. L’impressione è che in questa fase sia a Milano che a Trieste ciascuno abbia le proprie gatte da pelare, ma un allentamento dei meccanismi della Galassia è percepibile. E’ probabile che nei prossimi mesi ci sarà una ulteriore evoluzione al termine della quale la Galassia non sarà più la stessa. Ma quali saranno allora i pesi relativi di Milano e di Trieste è ancorapresto ner dirlo.