di Laura Magna

Bankia come Lehman. Il paragone non è eccessivo e anche gli effetti potrebbero essere simili. «Direi che soprattutto negli Usa – dice a B&F Gabriele Roghi, responsabile gestioni patrimoniali di Invest Bank – ci si era illusi della fine della crisi, ma il recente caso di Jp Morgan è un’amara conferma del fatto che le cattive e vecchie abitudini non sono mai state superate. Probabilmente abbiamo vissuto un breve intervallo, ma adesso è iniziato il secondo tempo». Un circolo vizioso da cui si fa fatica a uscire. «Il credit crunch, generato dalla crisi dei subprime – spiega Corrado Caironi, investment strategist di Research and Capital AllocationR&CA – ha prima colpito direttamente le banche, le quali sono state successivamente salvate dai governi, mentre ora questi ultimi devono essere salvati dalle banche stesse. In questo ultimo passaggio gli istituti di credito stanno compromettendo i propri bilanci finanziando gli Stati con l’acquisto dei debiti sovrani a fronte di una forte volatilità degli spread; l’ulteriore complicazione è che le banche non riescono a fare utili da intermediazione e servizi per il forte rallentamento economico». E questo accade perché, «da due anni le istituzioni europee – suggerisce Stefano Gianti, analista di Cmc Markets – adottano la politica dei piccoli passi, causa l’ostruzionismo tedesco, che molto astutamente ora si finanzia con tassi che vanno dallo 0,07% all’1,44%, che significa denaro praticamente gratis!». Una politica che non è più sostenibile e la crisi delle banche spagnole suona come l’ultimo avvertimento. «La situazione spagnola è seria – commenta Fabio Fois, european economist di Barclays – stimiamo che le potenziali perdite non coperte, al netto delle provision che sono state messe da parte, possano andare dai 90 miliardi di euro nel nostro scenario base macro (Pil in calo del 2% nel 2012 e dello 0,5% nel 2013 e prezzi degli immobili in ulteriore declino del 20%); a potenziali perdite non coperte di 156 miliardi, immaginando una crescita a -4% e a -2% nel 2012 e nel 2013, con prezzi delle case in ulteriore correzione del 35%». E la debolezza di economia e società locali non aiuta certo. «Le famiglie – continua Fois – sono sotto pressione. La bolla nel settore delle costruzioni, nella sua fase calante, lascia in eredità una disoccupazione di lungo periodo. Inoltre, l’indebitamento delle famiglie è vicino al 100% del Pil». La questione riguarda più le piccole banche che il sistema in generale. «In Spagna – continua Giorgio Arfaras, presidente di Scm Sim – sono le Casse di risparmio a essere messe malissimo», ma non è necessariamente una buona notizia: proprio perché è comunque lo Stato a pagare per loro. Esiste dunque un rischio di contagio? «La debolezza del sistema spagnolo – spiega Fois – sta nell’ammontare di prestiti concessi negli anni passati alle aziende attive nel settore delle costruzioni. Gli altri sistemi nazionali, Italia e Francia in particolare, sono stati invece penalizzati dalla forte esposizione ai governativi dei periferici. Tutto sommato questi debiti fanno meno paura dei loan spagnoli nel settore costruzioni, visto che l’immobiliare non ha ancora finito la corsa al ribasso. Per queste ragioni, non vedo contagi diretti da un sistema bancario all’altro: certo, però, se la Spagna ha un problema bancario e lo Stato deve pagare, aumenta il rischio Paese, allora il contagio può essere trasmesso ai Btp».

BANKIA E LE ALTRE. Dunque l’attenzione resta alta. E come evolverà la situazione? Forse la lezione del 2009, quando la Germania prima e l’Italia poi si trovarono a dover affrontare problemi di solvibilità delle rispettive banche, può aiutare. «La storia delle crisi bancarie del passato insegna come, molto spesso, la via di uscita sia costituita dalla nazionalizzazione di una parte del sistema – spiega Roberto Contini, responsabile direzione advisory di Banca Intermobiliare – e in Spagna si rischia un fenomeno analogo sulle banche di piccole dimensione, mentre Santander e Bbva hanno una minore dipendenza dal mercato domestico e sono molto forti nei Paesi emergenti e negli Usa». Così ci sono sicuramente analogie tra la nazionalizzazione di alcune casse in Germania nel 2009 e quanto sta avvenendo in Spagna, «Ma molto diversa – spiega Contini – è la composizione del Pil in Germania rispetto alla Spagna, dove non esiste un settore industriale forte e competitivo sui mercati internazionali che possa controbilanciare il peso di un intervento di nazionalizzazione». Poche le potenziali analogie invece con la scelta italiana di introdurre i Tremonti bond. «Che furono emessi – ricorda Gianti – quando gli investitori ritenevano che le banche italiane fossero relativamente poco esposte al rischio di credit crunch. La Spagna è ora nel mezzo del ciclone e presenta tassi richiesti dal mercato troppo alti. Dovrebbero essere introdotte nuove forme obbligazionarie, tra i garanti ci deve essere la firma dell’Unione europea, solo in questi casi gli istituti si potranno finanziare con tassi accettabili». Intanto il governo spagnolo ha già varato il secondo programma di ristrutturazione del sistema finanziario. «Un programma – spiega Santiago Lopez Diaz, analista banche di Exane Bnp Paribas – che si basa su alcuni punti cardine: due società indipendenti avranno il compito di valorizzare le attività del sistema; gli accantonamenti sui performing loans sono aumentati dal 7% al 30%, vale a dire circa 30 miliardi di euro supplementari. Tutte le banche sono obbligate a trasferire i propri asset tossici in apposite società (SGA, Sociedades de Gestión de Activos). Misure positive per il sistema, ma negative per gli azionisti e per i contribuenti che potrebbero uscirne fortemente penalizzati. In questo contesto abbiamo deciso di tagliare le nostre stime per i prossimi due anni sugli Eps del 44% in media. Allo stesso tempo abbiamo ridotto i prezzi target del 18% in media». 

LA MAPPA DEL RISCHIO. Ma se la Spagna è in bilico, gli altri sistemi finanziari europei non è che possano dirsi al riparo. «Un’insufficiente bravura nel gestire la crisi potrebbe provocare un credit crunch europeo – continua Gianti – La dimostrazione che il livello di fiducia è basso è data dal fatto che le banche commerciali tengono gran parte della liquidità presso la Bce. Tante nazioni presentano banche in difficoltà: Austria, Belgio e Olanda, anche la stessa Germania presenta banche con bilanci non in regola».
Nessuno è salvo, ma le differenze all’interno della zona euro sono molte. «Il sistema bancario spagnolo è in difficoltà – spiega Contini – ma il rapporto debito/Pil della Spagna è ancora basso (inferiore al 90%) e potrebbe sopportare un intervento. Nessuno può considerarsi fuori dalla crisi fino a quando non si riuscirà a capire la profondità e la durata della recessione nei Periferici, ma si può dire che il sistema bancario italiano è posizionato meglio degli altri». Una classifica del rischio, in ogni caso, si può azzardare. «Dal più basso al più elevato, dal punto di vista del rischio – sostiene Steve Hussey, head of financial institutions credit research di Alliance Bernstein – Scandinavia, Regno Unito, Svizzera, Benelux, Germania, Francia, Italia, Spagna, Irlanda, Portogallo e Grecia».
Nessuno è fuori dall’onda lunga della crisi, dicevamo. «Il problema – sostiene Caironi – è che il sistema banche è fortemente integrato e la questione di chi sia coinvolto è comunque legata al tema caldo dei deposit outflows. &Egra
ve; in atto un forte spostamento di depositi dalla Grecia verso paesi core e in particolare in Germania». Senza considerare che le banche non hanno mai smesso veramente di essere sotto pressione. «Da un gran numero di fonti – conclude Hussey – non solo la nuove regole, che costringono al deleveraging e al rafforzamento dei requisiti patrimoniali. Insieme alla recessione e alla crisi dei debiti questo si tradurrà in un deterioramento ulteriore della qualità degli asset e utili sempre più sotto pressione. Per uscirne sul serio, ci vorrano anni».