Mariano Mangia

Milano Secondo qualcuno la previdenza integrativa fatica a crescere perché gli italiani sono molto preoccupati per il presente e poco per il futuro. Certo non aiuta la crisi economica, aumentano i casi di riduzione o di sospensione dei versamenti da parte dei lavoratori, e forse anche l’ultima riforma del sistema pensionistico pubblico ha determinato un certo spiazzamento. C’è una rassegnata consapevolezza del fatto che si andrà in pensione più in là negli anni, mentre è più difficile capire su quale pensione si potrà contare e, di conseguenza, decidere quanto accantonare per non ridurre eccessivamente il proprio tenore di vita una volta lasciato il lavoro. Stimare l’importo di una pensione che sarà erogata in un futuro più o meno lontano, non è facile. «Sul finire degli anni ottanta, quando ho iniziato ad occuparmi di queste tematiche, fare un calcolo della pensione ricorrendo a un software appariva quasi eccessivo », racconta Alberto Cauzzi, amministratore delegato della società di consulenza Epheso AI. Già, dopo tutto bastava moltiplicare il 2% dell’ultima retribuzione o della media degli ultimi anni per ogni anno lavorato e il più era fatto. «Con il sistema contributivo gli scenari macroeconomici e demografici impattano in modo sostanziale sull’entità della pensione», spiega. «Avere un modello di simulazione, che consenta di modificare alcuni parametri per capire cosa succede, è

fondamentale». Su simulazioni di scenari si baserà anche la «busta arancione», la stima della pensione che l’Inps, dopo vari rinvii, si appresta a inviare ai propri iscritti. La complessità deriva dal fatto che, oltre a neutralizzare gli effetti dell’inflazione, bisogna formulare ipotesi, su un arco temporale che può essere anche particolarmente lungo, sull’andamento di almeno tre variabili: lo sviluppo della carriera, ovvero della retribuzione, il tasso di crescita dell’economia e la speranza di vita. L’evoluzione della retribuzione incide ovviamente sul «carburante» stesso della futura pensione, perché determina l’ammontare dei contributi versati. Con un effetto paradossale: la pensione di un lavoratore dalla carriera piatta sarà più vicina alla sua ultima retribuzione, mentre un lavoratore che ha visto crescere inquadramento e stipendi avrà un tasso di sostituzione, il rapporto tra pensione e ultimo stipendio o reddito, più basso. Un trentenne che entra oggi nel mondo del lavoro con uno stipendio netto annuo di 15.600—, dovrebbe ricevere, nell’ipotesi di una carriera media (incrementi annui del 2% oltre il tasso di inflazione), una pensione netta annua di 19.860 euro, ovvero il 70% dell’ultimo stipendio; nel caso di una carriera brillante (aumento medio reale del 4%), la pensione sarà, nominalmente, più elevata, 24.366 euro, ma pari a poco meno del 50% della sua ultima retribuzione. L’andamento dell’economia incide, invece, i contributi versati sono rivalutati ogni anno in base alla variazione media quinquennale del Pil nominale. Se il Pil cresce poco, «rende» meno quanto versato: l’ultimo coefficiente di rivalutazione applicato al montante contributivo di fine 2010 è stato pari all’1,6%. Capitalizzare 5.000 euro l’anno per 30 anni al 5% determina un capitale finale di 332 mila euro, con un tasso del 2% si scende a 202 mila euro; se un decennio di crescita bassa (2%) si verifica nella fase iniziale della carriera, il capitale sarà di 310 mila euro, ma, se coincide con il periodo che precede il pensionamento, il risultato si riduce a 256 mila, perché colpisce un capitale cumulato, il montante contributivo, più alto. L’andamento demografico, infine, entra in gioco due volte: tanto i requisiti di accesso, l’età pensionabile, quanto i coefficienti di trasformazione, le aliquote da applicare al montante contributivo per ottenere l’importo della pensione, saranno legati alle aspettative di vita e rivisti nel 2013, nel 2016, nel 2019 e, successivamente a questa data, a cadenza biennale. In base alle attuali proiezioni sulle aspettative di vita, un cinquantenne con un’anzianità contributiva di 25 anni, andrà in pensione non prima dei 68 anni, invece che a 63 anni e 5 mesi. Per contro, grazie al maggior numero di anni di contribuzione, dovrebbe ricevere una pensione più vicina alla sua ultima retribuzione, il tasso di sostituzione netto passerebbe dal 68% all’80%, ma godrà della pensione per un periodo più breve, 17 anni circa invece dei 22 anni pre-riforma, che si riducono a 13 anni se vorrà lavorare più a lungo per ridurre ulteriormente il gap. Le conclusioni? E’ il caso di dire, meglio essere ‘previdenti’. Le variabili in gioco sono tante e ogni carriera lavorativa, in termini di regimi contributivi, continuità dei versamenti e sviluppo delle retribuzioni, fa storia a sé. Una percentuale di copertura, calcolata al netto degli effetti fiscali e contributivi, del 70-75% può suonare incoraggiante, ma tradotta in soldoni appare meno affascinante. Il trentenne dell’esempio precedente, pur nell’ipotesi migliore, tasso di sostituzione del 70%, una volta in pensione percepirà 656 euro in meno al mese rispetto al suo stipendio di 2.184 euro. E’ il caso allora di pensare per tempo all’effetto che farà ridurre del 30% o più quanto spendiamo in abbigliamento, cene o vacanze, senza considerare le esigenze di assistenza dell’età più avanzata e senza dimenticare che lo stipendio cresce per effetto di rinnovi contrattuali e di avanzamenti di carriera, la pensione aumenterà solo in base al tasso di inflazione. L’andamento dell’economia incide, i contributi versati sono rivalutati ogni anno in base alla variazione media quinquennale del Pil nominale. Se il Pil cresce poco, «rende» meno quanto versato Su simulazioni di scenari si baserà anche la «busta arancione», la stima della pensione che l’Inps si appresta a inviare