In Italia l’advisory finanziaria stenta a decollare. E non è solo a causa della scarsa domanda da parte dei risparmiatori. Però anche l’offerta deve migliorare 

di Paolo Martini*

Da decenni si parla di consulenza al cliente in ambito finanziario anche come contraltare al fai-da-te spesso rischioso. La direttiva europea Mifid ha disciplinato in modo preciso il concetto di consulenza da un punto di vista legale. Nei convegni, negli articoli e nelle intenzioni più evolute della comunità economico/finanziaria si è spesso associato il concetto di consulenza finanziaria alla consulenza prestata da un avvocato, un notaio o un commercialista che vengono retribuiti esclusivamente rispetto al valore/consiglio che portano al loro assistito. In molti casi poi quello che il cliente paga è indipendente dal risultato finale (un avvocato viene retribuito a prescindere dal fatto che vinca o meno la causa). Se ne è parlato tanto ma in concreto si è fatto ancora poco. I motivi sono probabilmente da ricercare nel contesto (mercati), nell’offerta (gli operatori del settore) e nella domanda (i clienti).

Contesto. Gli ultimi anni sono stati decisamente critici da un punto di vista economico e di andamento dei mercati azionari. Se è vero che il valore della consulenza espresso come differenza rispetto al fai-da-te è più facile da dimostrare in momenti difficili, è anche vero che la negatività generalizzata non aiuta. Come dimostrato infatti dalla recente ricerca Gfk-Eurisko, la soddisfazione media degli italiani verso il servizio di consulenza è scesa dal 2007 ad oggi in modo deciso.

Offerta. La strada da fare è ancora tanta se pensiamo che moltissimi clienti, secondo recenti ricerche, non hanno visto il loro consulente negli ultimi 12 mesi. Al di là delle diverse strategie degli intermediari, è infatti necessario chiedersi se noi saremmo disposti a pagare una parcella di consulenza rispetto al livello di servizio prestato oggi in Italia. Servono interventi importanti per alzare il livello delle competenze e quindi della qualità della prestazione offerta. Stiamo attraversando una fase dove serviranno forti investimenti da parte delle aziende e dei consulenti in termini di idee, tempo e voglia di cambiare. Le logiche di comunicazione di gran parte delle società sono però orientate al singolo prodotto così come l’attività di molti consulenti si basa solo su campagne di vendita del singolo strumento. Questo non è sbagliato ma si tratta di un intervento tattico che non facilita lo sviluppo di un vero servizio di consulenza che per sua natura richiede tempo e una forte convinzione verso il proprio lavoro.

Domanda. Chiamarla domanda è già di per sé una forzatura visto che i servizi finanziari non sono certo richiesti. Innanzitutto le persone sono abituate a pagare l’avvocato, il notaio o il commercialista perché da sempre questa è la prassi. Nel caso della consulenza finanziaria invece vale il contrario. Mutare queste abitudini non è semplice e il processo è lungo e articolato. Serve forte determinazione da parte di tutti e bisogna alzare il livello medio di cultura finanziaria dei clienti perché altrimenti non riescono a cogliere il valore. Come indicato nella ricerca Gfk-Eurisko sono ancora pochi i clienti che hanno voglia di pagare direttamente una parcella per un servizio di cui ancora non vedono i risultati (in molti casi non hanno torto). I 200 miliardi di prodotti strutturati nei portafogli delle famiglie italiane (contro i 50 miliardi dell’Inghilterra o i 150 scarsi della Germania) sono testimonianza che la strada della consulenza sia ancora lunga. Come ogni mercato che sta nascendo però ci sono enormi potenzialità per chi saprà coglierle. (riproduzione riservata)

 

* responsabile marketing e formazione di Azimut