EUGENIO OCCORSIO

«E’ urgente smentire un luogo comune: alla resa dei conti, la riforma sanitaria si tradurrà in un risparmio per il bilancio pubblico degli Stati Uniti». Alan Krueger scandisce bene le parole, e in questo caso ha titolo per farlo: è stato fino allo scorso novembre capo economista, con la qualifica di sottosegretario, al Dipartimento del Tesoro americano, prima di riprendere la sua posizione di professore di “economy and public affairs” alla Princeton University. Un breve periodo che però è stato sufficiente per legare il suo nome alla riforma sanitaria, lo storico provvedimento che per la prima volta nella storia americana ha attribuito praticamente a tutti i cittadini l’assistenza ospedaliera, almeno quella essenziale. Krueger verrà a Trento al festival dell’Economia a raccontare quest’esperienza vissuta a fianco del ministro Tim Geithner e dello stesso Obama.
Com’è possibile che un provvedimento di tale portata, sicuramente benefico dal punto di vista sociale ma avversato dall’opposizione repubblicana che vi vede il colpo finale alle finanze statali, invece si traduca in un vantaggio economico?
«La chiave di tutto sta negli inasprimenti fiscali, che però sono modulati in modo tale da risultare pressochè nulli dal punto di vista degli effetti sulla popolazione nel suo complesso. Sono previste infatti, a partire dalla fine di quest’anno, delle soprattasse neanche tanto pesanti a carico dei cittadini che guadagnano più di 250mila dollari nonché delle aziende farmaceutiche. Il tutto finalizzato espressamente al finanziamento del servizio sanitario nazionale. Parallelamente ci sarà una serie di razionalizzazioni di spesa pubblica ma soprattutto una capillare e accurata opera di ridimensionamento delle tariffe assicurative sanitarie nonché di riduzione forzata delle spese ospedaliere, due voci che sono cresciute in modo abnorme negli ultimi anni e che effettivamente se scaricate sull’erario potrebbero far saltare i conti. Ancora: sulle vendite di apparecchiature mediche o paramediche sarà applicata dal 2013 una tassa aggiunta del 2,9%. Nel frattempo, sarà razionalizzata l’attività del Medicare per gli anziani e sarà rallentato come accennavo il ritmo dei rimborsi agli ospedali stessi. Intanto, alle assicurazioni sarà proibito di interrompere una polizza se l’assicurato si ammala. Non potranno più negare a nessuno la copertura a causa di malattie preesistenti, e poi dovranno tutte adottare politiche di massima trasparenza. Il circuito virtuoso che sarà attivato da tutte queste misure si tradurrà in una maggiore affidabilità del servizio sanitario nel suo complesso, e anche in un miglior controllo delle spese».
Avete delle stime verosimili?
«Meglio: il Congressional Budget Office, un’istituzione rigorosamente bipartisan e indipendente, stima che il risultato netto provocato della riforma sarà un risparmio di 100 miliardi di dollari di qui a dieci anni. Intendiamoci, la spesa sanitaria aumenta, quello che diminuisce è il deficit federale per l’effetto delle nuove tasse e soprattutto delle razionalizzazioni e dei miglioramenti di produttività che una popolazione tutta assistita porterà. Tutto sommato, resto convinto che la legge, se non fosse stata soggetta a tanti compromessi politici, avrebbe potuto fare di più per contenere le spese sanitarie, per esempio inserendo correttivi e ridimensionamenti alle cause di malpractice (“malasanità”) ma il risultato che si è conseguito è di estrema importanza».
Però in questo momento di difficile ripresa, con Standard & Poor’s che mette sull’avviso gli Stati Uniti per il loro livello di indebitamento, era questo il provvedimento più opportuno?
«Chiunque riconosce che l’attuale tendenza nelle finanze pubbliche ha bisogno di correttivi, ma la riforma sanitaria come detto non è fra gli accusati. È un’operazione meritoria e storica. Per il resto, l’amministrazione Obama sta agendo responsabilmente per ridurre drasticamente le spese inutili, rinviare quelle rimandabili, correggere i tanti squilibri esistenti. Ma fermo restando tutto questo, l’allarme di S&P’s mi sembra assolutamente eccessivo e fuori luogo, come conferma il fatto che i mercati non ne hanno tenuto alcun conto. Tra l’altro, l’agenzia di rating probabilmente è incorsa in un equivoco: parla di un debito di 14mila miliardi di dollari, che sarebbe pari quasi al 90% del Pil americano. Ma il vero debito, senza contare l’intensa rete di partite di scambio fra le varie amministrazioni centrali e locali americane, è secondo i nostri calcoli non superiore agli 8mila miliardi. Tanti, certo, ma sopportabili».
Ciò malgrado, il settimanale The Economist si chiede, nella sua storia di copertina della settimana scorsa “cosa c’è di sbagliato nell’economia americana?” Lei cosa risponderebbe?
«Che effettivamente la disoccupazione sarà molto lenta da riassorbire. È un dato strutturale che non resta che accettare, anche se le aziende hanno ripresa a investire e la domanda dei consumatori sta lentamente riprendendosi. Comunque, ancora siamo imbrigliati nel dilemma fra il corso di Kindleberger e la legge di Zarnowitz. Entrambe le forze sono in ballo».
Scusi, di cosa sta parlando?
«Sono due economisti. Charlie Kindleberger dipinge la tendenza di una recessione provocata da una crisi finanziaria ad essere estremamente lunga da riassorbire e persistente nelle sue ricadute. Victor Zarnowitz invece detta una regola per cui un’economia ben strutturata come quella americana recupera più facilmente e rapidamente da una recessione profonda che da una strisciante. Non tutte le colpe sono dell’America. Il problema è complicato dagli scossoni internazionali: quando l’economia Usa sembra sul punto di riprendersi vigorosamente, arriva la questione dei debiti sovrani nei paesi europei con la conseguente crisi di sfiducia globale. E tutto torna in discussione. Insomma, tutti, voi europei compresi, abbiamo la nostra parte di colpa».