MARCO PANARA

Milano. Incontro un finanziere di lungo corso e, punto da curiosità, chiedo: «Come funziona il sistema di potere finanziario senza Cesare Geronzi?» «Senza?» risponde, con un sorriso impietoso (nei confronti della mia ingenuità). «Certo cerco di recuperare ha ancora amici importanti». Il finanziere taglia corto: «Comincerei dai nemici, ai quali da sempre presta grandissima attenzione». Quali? «Glieli dico in ordine alfabetico, così da non fare torto a nessuno: Diego Della Valle, Alberto Nagel, Renato Pagliaro, Fabrizio Palenzona, Giovanni Perissinotto».
Una bella lista, non c’è che dire. Compilata da Cesare Geronzi, pensionato suo malgrado all’età di 76 anni il 4 aprile scorso, quando di fronte a 12 consiglieri di amministrazione delle Generali su 17 che lo sfiduciavano, presentò la sua lettera di dimissioni. Un’uscita amara, ancorché addolcita da una pillolona da 16 milioni di euro sotto forma di generoso bonus dopo un anno scarso di presenza al vertice del Leone di Trieste.
Il filone sul quale l’indomito banchiere concentrerà la sua attenzione non richiede grandi sforzi per essere scoperto, giacché aveva cominciato a seguirlo alla luce del sole quando era ancora presidente.È la tela di rapporti non sempre né del tutto trasparenti tra la compagnia e alcuni suoi azionisti e consiglieri di amministrazione. Da Mediobanca, il più importante di tutti al ceko Kellner, dal gruppo De Agostini alla Ferak della Palladio e Crt fino a Diego Della Valle.
Quello che tutti si chiedono tuttavia, è se Geronzi avrà la forza per consumare la sua vendetta e se dalla panchina tornerà in campo da blasonato titolare di qualche importante poltrona.
Intelligenza e abilità non gli mancano, né un certo rispetto anche tra coloro che hanno storie e visioni profondamente differenti dalla sua: «E’ sempre stato un interlocutore credibile, quando si raggiungeva un accordo si poteva stare certi che avrebbe fatto la sua parte» dicono di lui. Ma a questo punto intelligenza e abilità non bastano, ciò che conta è un’altra lista, quella degli amici.
Il finanziere di lungo corso la mette così: «Un po’ di Vaticano, anche se meno che in passato, molto Palazzo Chigi, una spruzzata di impresa pubblica, un pezzo di Francia». Decrittando la ricetta del cocktail e senza andare a cercare i cardinali di riferimento, i nomi diventano Silvio Berlusconi, Gianni Letta, Luigi Bisignani, Paolo Scaroni, Tarak Ben Ammar, Vincent Bolloré.
Pezzi da 90 non c’è che dire. Ma quanto forti a loro volta in questa fase? Luigi Bisignani, consigliere alla Presidenza del Consiglio, riceve l’attenzione della magistratura nell’ambito dell’inchiesta sulla P4 (nella quale non risulta indagato). Silvio Berlusconi deve fare i conti con la magistratura anche lui e, ancora di più, con il voti di Milano. Quelli della signora Moratti e i suoi, crollati da 53 mila a 28 mila. Per non parlare dei problemi nella sua maggioranza preesistenti al voto della scorsa settimana e da quello resi più drammatici. Berlusconi ha grande stima e forse anche affetto per Geronzi, e soprattutto gratitudine per colui che all’inizio degli anni ’90 salvò la sua Fininvest e le aprì la strada per nuovi mirabolanti successi, e certamente lo vedrebbe volentieri di nuovo in sella a qualche potente cavallo.
Nelle scorse settimane è trapelata addirittura una indiscrezione secondo la quale il presidente del consiglio avrebbe per un momento considerato l’improbabile idea di portare don Cesare in via XX Settembre al posto di Giulio Tremonti. I suoi rapporti con il ministro dell’Economia oscillano tra il freddino e il polare e quello poteva essere uno di quei momenti in cui il rapporto era segnato dal vento artico. Ma il vento passa, e per una poltrona come quella non bastano la gratitudine e la stima del numero uno.
Negli ultimi giorni è corsa voce di una soluzione di riserva, ovvero la presidenza della Cassa Depositi e Prestiti al posto di Franco Bassanini. La Cdp è il gran salvadanaio dell’Italia da proteggere e da ricostruire, l’architrave dell’architettura tremontiana, ma lì a decidere c’è un duo di ferro, anzi d’acciaio, che si muove ormai in sintonia, sia pure dialettica: il ministro Giulio Tremonti e Giuseppe Guzzetti il presidente dell’Acri che è anche azionista importante della Cassa che non sembrano essere annoverabili nelle schiere dei geronziani. Target difficile quindi. Berlusconi dovrà pensare a qualcos’altro.
Poi c’è Gianni Letta, il più vicino di tutti ora che Francesco Cossiga, l’amico e sostenitore di tutti storicamente il più caro non c’è più. Il gran ciambellano del Palazzo è assai più paziente di Berlusconi nel costruire itinerari nei meandri del sistema di potere, ma la sua stella è legata a quella di Silvio e in questa fase brilla un po’ di più semmai quella del suo collegaantagonista (nel potere finanziario) Giulio Tremonti.
Intanto Letta fa quello che può. Lunedì 9 maggio, mentre il nuovo presidente della Consob Giuseppe Vegas presenta a Milano la sua prima relazione davanti a Giulio Tremonti e a tutti i maggiorenti della finanza nazionale, Letta a Roma consegna il premio Guido Carli nelle mani di Geronzi (e di altri 12), offrendo all’ex presidente delle Generali una qualificata platea per la sua prima uscita pubblica da ex. Opportunità che peraltro Geronzi utilizza con il garbo che lo caratterizza, ricordando il grande governatore sotto il quale aveva fatto buona parte della sua carriera in Banca d’Italia, e in particolare le trame che ne avevano determinato l’uscita, la sua rinascita in altri ruoli, sempre al servizio del paese, nonché la sua filosofia così contraria alle “arciconfraternite del potere”. Qualcuno, ostinato dietrologo, ha voluto leggerci un messaggio.
Infine i francesi. In questa fase in Italia stanno facendo man bassa, da Bulgari a Edison a Parmalat, ma a comprare non sono gli amici di Geronzi, i quali devono la loro forza ai legami con Berlusconi in Italia e con Sarkozy in Francia, due leader non proprio sulla cresta dell’onda. Inoltre non sono più così ben visti in Mediobanca, dove qualcuno tra cui si mormora il ministro Tremonti preferirebbe vederli ridimensionati.
Nel frattempo, tra qualche voce di prestigioso incarico e l’uscita per l’evento celebrato da Letta, l’ex presidente di Capitalia, Mediobanca e Generali si occupa a tempo pieno della Fondazione Generali di cui è presidente. Una scatola pressoché vuota per una trentina d’anni, nella quale il neopresidente (è questo l’incarico che ricopre al momento) vuole infondere nuova vita. Ha a disposizione un ufficio, una piccola struttura, una dotazione appena stanziata di 2,5 milioni l’anno e l’autonomia di firma per le erogazioni fino a un massimo di 10 mila euro. Per cifre superiori ci vorrà l’approvazione del consiglio di amministrazione composto, oltre al presidente Geronzi, da Raffaele Agrusti, Sergio Balbinot, Giovanni Perissinotto, Attilio Invernizzi e Angelo de Mattia. L’obiettivo del presidente è che l
a Fondazione “pur nel rigoroso rispetto delle compatibilità di bilancio, svolga un ruolo di primo piano nel campo degli enti di utilità sociale e nella ricerca”.

Allora i nemici possono stare tranquilli? «In linea di massima mai commenta il finanziere di lungo corso nello specifico aspetterei per rilassarmi un po’, ma non del tutto, l’autunno prossimo». Non è una data indicata a caso. Di qui al prossimo ottobre ci sono due scadenze cruciali: il verdetto atteso entro luglio per la vicenda Cirio, con Geronzi imputato, che in caso di condanna segnerebbe il tramonto definitivo del banchiere, e la scadenza del patto di sindacato di Mediobanca. Nel caso di cambiamenti in Piazzatta Cuccia, ove questi andassero nella direzione a lui più favorevole, lo spazio per la vendetta potrebbe improvvisamente aprirsi.
Intanto resta il telefono. Geronzi un anno fa, alla sua nomina a Trieste da presidente senza deleghe aveva commentato: «A me basta alzare il telefono». Ma il telefono, in queste settimane, squillerà?