VITTORIA PULEDDA

I primi segnali della tempesta perfetta che stava per abbattersi sul gruppo si sono avvertiti intorno all’estate scorsa; i più ottimisti ritengono che la quadratura del cerchio arriverà, nella migliore delle ipotesi, entro luglio. Però ormai ci siamo: la crisi del gruppo Ligresti si avvia a conclusione. Necessariamente, visto che il margine di solvibiltà della capogruppo, Fonsai, è sceso sotto quota 100. E dunque per vincolo Isvap deve essere ripristinato quanto prima. Ma non è solo quel numeretto per quanto strategico a inchiodare il gruppo: la montagna di debiti, i pacchetti societari dati in pegno alle banche, le necessità finanziarie di tutta la filiera sono tali che in un modo o nell’altro è indispensabile trovare una soluzione. Alla griglia di partenza, a questo punto, c’è Unicredit. La banca ha sostituito per il momento Groupama nel ruolo di cavaliere bianco ma dall’annuncio ad oggi è già passato un mese e mezzo. La palla resta saldamente in mano alla Consob; si vedrà in quale metà del campo vorrà buttarla: dopo aver detto ai signori di Francia che mettere le mani sul gruppo significava necessariamente lanciare l’Opa, ora arriva la risposta forse più difficile, quella a Unicredit. Un gruppo italiano, stavolta, e che dalla sua ha una richiesta di partecipazione nel capitale Fondiaria molto più contenuta (il 6,7%). Non solo: per non voler calcare la mano, la banca ha limitato la sua garanzia sull’eventuale inoptato dell’aumento di capitale Fonsai ad una quarantina di milioni (lasciando l’onore e l’onere principale al Credit Suisse) per non rischiare di trovarsi troppi titoli in mano, mentre al contrario dividerà al 50% (con il Credit Suisse) il peso di assicurare già in partenza l’aumento al piano di sotto, nella Milano Assicurazioni. Inoltre il fine della banca, non dichiarato ma trasparente, non è industriale ma quello di salvataggio dei propri ingenti crediti: complessivamente, 560 milioni di euro accordati, cui stanno per sommarsi gli impegni presi con la ricapitalizzazione del gruppo.
O meglio, si sommerebbero, nel caso in cui la Commissione dica che stavolta non c’è obbligo di opa da parte di Unicredit. Il parere è atteso nella seconda settimana di maggio, subito dopo la Relazione della Consob al mercato, il 9 maggio. Le scommesse sono per un’assoluzione ma non con formula piena: l’organo di vigilanza infatti si avvierebbe quantomeno a chiedere interventi significativi sulla governance. Infatti Unicredit ha concordato con Premafin precise e corpose garanzie sul fronte della gestione di Fonsai (chiedendo tre consiglieri nel cda, di cui due nel Comitato esecutivo) e ipotecando fuori dal Patto, ma in modo chiaro anche la figura del direttore generale. Non basta: l’intervento al vertice della filiera, quello che prevede il “rabbocco” di liquidità ai piani altissimi di Sinergia (la holding di controllo del gruppo) per altri 35 milioni, che Unicredit è pronto a pompare nel gruppo, è subordinato all’ok di tutte le altre banche creditrici ma anche alla presenza di un consigliere indipendente nel consiglio e al mandato a vendere immobili per oltre un centinaio di milioni. Insomma, Unicredit interviene pesantemente e vuole sorvegliare che i suoi sforzi non vengano vanificati: giustissimo, ma forse un po’ in contrasto con il ruolo “dimesso” che la banca vuole giocare nei confronti della Consob, per dribblare l’Opa. Si vedrà come andrà a finire la partita. 
Di sicuro, una volta messa a punto la cosa più urgente, la ricapitalizzazione, bisognerà passare alla fase due, forse ancora più importante: la riorganizzazione industriale del gruppo. Con un progetto strategico di ampio respiro sulla risistemazione della filiera e con solidi paletti gestionali, per evitare che la malagestione del passato ritorni in auge passata l’emergenza. Insieme ad un piano chiaro di dismissioni magari non solo annunciate di attività non strategiche (e quasi sempre in perdita).
Nel frattempo il neoamministratore delegato, Emanuele Erbetta, gestisce l’esistente e cerca di far fronte alle furibonde critiche degli azionisti di minoranza della Milano, che giustamente non capiscono perché debbano mettere mano al portafoglio, per portare il margine di garanzia della loro assicurazione intorno al 200%, livello ben più alto di quello di Generali, tanto per fare un esempio. Soci che non hanno proprio esultato alla prospettiva di dover tirar fuori moneta sonante per poi veder investiti i proventi dell’aumento di capitale «prevalentemente per incrementare il portafoglio titoli, principalmente obbligazionario, cercando il giusto compromesso tra liquidità e redditività» o ancora per «il rafforzamento competitivo e/o la riorganizzazione delle controllate Liguria e Dialogo». Soci di minoranza che forse hanno malignamente pensato che almeno uno degli obiettivi forti dell’aumento di capitale è piuttosto di contribuire a rafforzare la controllante Fonsai senza costringere l’azionista di riferimento della medesima, la Premafin della famiglia Ligresti, a sborsare troppi soldi (che non ha) o in alternativa a diluirsi troppo (cosa che ovviamente non vuole).
E anche l’idea di correre in soccorso della Liguria deve essere non proprio un piacere, per il piccolo socio della Milano. Già, perché l’ultimo atto del processo di “trascinamento” dei problemi verso il basso si conclude con il passaggio dei problemi al gradino più vicino al mercato; quindi, alla Milano Assicurazioni. La “perla” del gruppo, negli ultimi tempi ha accolto a braccia aperte molte nubi che si addensavano al piano di sopra, sulla controllante Fonsai. Così, nell’ultimo bilancio la compagnia di assicurazioni ha effettuato rettifiche nette per 433,7 milioni. Di queste, una bella fetta fa capo alla Liguria: questa piccola società che dovrebbe costituire il polo multimandatario del gruppo insieme alla Sasa, divisione della Milano, ed è stata affidata alla mani decise di Sandro Salvati è stata acquisita nel 2006 da Fonsai e “girata” a fine 2008 (già in perdita) alla Milano: in due esercizi ha accumulato perdite per 117 milioni e a fine 2010 ha generato rettifiche di valore per la Milano Assicurazioni per 121,5 milioni (la voce più grande). La stessa Fonsai rappresenta non poche spine per la Milano: i titoli della controllante nel portafoglio della controllata sono stati svalutati a 18,2 euro, prezzo che corrisponde alla «valutazione implicita degli accordi intercorsi a suo tempo tra Premafin e Groupama», hanno spiegato i manager, ma si resta comunque lontano anni luce dai 6 euro e poco più del prezzo attuale di Fonsai in Borsa.
Dettagli? Nell’ultima assemblea proprio su richiesta della Consob i vertici hanno spiegato che la Milano fa parte di un «più ampio gruppo assicurativo facente capo a Fonsai, dalla cui appartenenza la compagnia trae beneficio in termini di sinergie, economie di scala ed efficienze organizzative».