Selezione di notizie assicurative da quotidiani nazionali ed internazionali

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Vengono definite imprese “zombie”, cioè non in grado di operare secondo le normali condizioni di mercato. In Italia, stando ai bilanci 2021 (gli ultimi disponibili), ce ne sono 23.262. Ma, a dispetto dell’immagine che il nome evoca, possono riuscire a rientrare in gioco. Infatti, nel biennio 2020-21 le aziende zombie risanate hanno superato le 40 mila unità. Soprattutto accedendo a risorse agevolate, come quelle del Fondo di garanzia. Tornando ai numeri, nel biennio 2020-21, a ricevere finanziamenti è stato il 28,8% (8.102) delle aziende considerate zombie nel 2019 e il 69,6% di esse (contro il 43,1% di quelle non finanziate) è riuscito a tornare sul mercato, grazie a 3,1 miliardi di euro di liquidità. All’opposto, il restante 30,4% è uscito dal mercato o è tuttora zombie, portando con sé 1,3 miliardi di finanziamenti andati perduti. A mettere nero su bianco questa situazione è la tech company Cerved, nello studio “Anatomia delle imprese zombie”, che traccia identikit ed evoluzione del ciclo di vita di queste aziende. Di cosa stiamo parlando? La definizione di zombie è attribuita a imprese in forte difficoltà finanziaria caratterizzate da alta incidenza dell’indebitamento e incapacità di ripagare gli interessi sul debito attraverso i propri utili. Spesso, quindi, prestiti e sussidi cercano di ridar fiato alle casse di queste imprese, per evitare impatti negativi su tutto il sistema. «Le ragioni per cui ciò accade sono legate alla salvaguardia della tenuta economica e dei livelli occupazionali del Paese», spiega, infatti, Andrea Mignanelli, amministratore delegato di Cerved, «così come alla necessità di contenere il rischio di insolvenza e di generazione di nuovi crediti deteriorati».
L’allerta resta alta sulla capacità da parte delle imprese di onorare i propri debiti nei confronti degli istituti di credito. Infatti, la curva del rischio credito non è in fase discendente, soprattutto per società di capitali e di persone. E il segno più contraddistingue anche gli indici delle famiglie produttrici. Passando dalle parole ai numeri: lo scorso anno c’è stata un’inversione di tendenza del rischio di credito, con quattro trimestri consecutivi di incremento. Tanto che si prevede un 2023 caratterizzato da un andamento in continua salita per quanto riguarda i tassi di default bancari. Rispetto al 2021, per le famiglie consumatrici, unica eccezione, la percentuale è invariata all’1,2%; per le famiglie produttrici si passa dall’1,7% di dicembre 2021 al 2% di dicembre 2022 (+18% a/a); per le società di persone il salto è dall’1,1% all’1,5% (+36% a/a) e addirittura, per le società di capitali l’incremento è del 50%, dall’1,6% si arriva al 2,4%.
Sono 6.158 i nuovi fallimenti aperti nei tribunali italiani lo scorso anno, il 30% in meno di quelli aperti nel 2021. Al 31 dicembre 2022, sono stati definiti 14.153 procedimenti, dato leggermente inferiore (-4%) a quello del 2021 (erano 14.778), mentre lo stock è stato ridotto a 60.555 pendenti (-12% rispetto al dato della fine dell’anno precedente). Nell’ultimo trimestre del 2022, sono stati aperti procedimenti per 859 fallimenti, valore inferiore del 62% rispetto all’ultimo trimestre 2021 e del 72% rispetto al 2019. Questi i dati raccolti nella rilevazione di Cherry Sea
La responsabilità penale per gli omessi versamenti Iva e il connesso potere di rappresentanza si acquistano direttamente con l’atto di conferimento della nomina e non conseguono alla pubblicità della stessa con l’iscrizione nel Registro delle imprese. Lo ha stabilito la sezione terza penale della Cassazione, nella sentenza n. 13319/2022 del 30 marzo scorso. Nello specifico, quindi, la Suprema corte ha stabilito che gli atti riguardanti la società hanno natura dichiarativa e non costitutiva; con la conseguenza che il rapporto di amministrazione, di natura contrattuale, nasce con la sola accettazione della nomina, la quale può essere anche tacita e non dipende in sé dall’adempimento degli oneri pubblicitari previsti dall’articolo 2383, comma 4, c.c..
Le imprese possono dribblare le responsabilità privacy quando le violazioni sono commesse dai dipendenti che abusano della loro posizione ed eccedono le loro mansioni. Ma per arrivare a questo risultato la strada è in salita e, comunque, ci vogliono apposite clausole nelle nomine dei dipendenti come autorizzati al trattamento, nelle informative rese agli stessi e nelle istruzioni e policy aziendali. È quanto discende da una pronuncia del Garante della privacy del Belgio, la n.16 del 27 febbraio 2023 (caso n. 2021-06717), che ha prosciolto un ente, ritenendo di separare la posizione di quest’ultimo da quella di una dipendente, che, invece, è stata formalmente ammonita per avere consultato dati di terzi al di fuori di esigenze di servizio.
Gli italiani danno maggiore priorità all’ambiente rispetto ai tedeschi e ai francesi: dal posto di lavoro agli acquisti, a guidare le scelte c’è la sostenibilità. Inoltre, il 76% degli italiani è favorevole a misure pubbliche che impongano nuovi comportamenti per far fronte ai cambiamenti climatici (59% dei tedeschi e 67% dei francesi), mentre l’80% afferma di essere convinto che il proprio comportamento possa fare la differenza nell’affrontare l’emergenza climatica, una percentuale superiore di 8 punti rispetto alla media Ue. È quanto emerge dalla seconda parte dell’Indagine sul clima per il 2022-2023 della Banca europea per gli investimenti (Bei), il braccio finanziario dell’Unione europea.
Si diffondono sempre più i mutui green. Le banche, infatti, cominciano a proporre prodotti per finanziare l’acquisto o la costruzione di abitazioni con elevate prestazioni energetiche o a sostenere interventi di riqualificazione che consentano un miglioramento da questo punto di vista, con condizioni agevolate come per esempio uno sconto sul tasso di interesse. In Italia i principali istituti di credito hanno iniziato a proporre questo tipo di mutui, offrendo ai richiedenti una serie di benefici che variano a seconda della banca: si va, per esempio, dallo sconto sul tasso di interesse, normalmente pari allo 0,10%, fino ai prodotti assicurativi gratuiti o ai servizi di consulenza ambientale per migliorare l’efficienza energetica della casa.
Un’alternativa al credito bancario per pmi e Mid cap è possibile. Con lo strumento dei “minibond” anche le imprese di minori dimensioni possono finanziare programmi di sviluppo in una prospettiva di medio-lungo periodo, con una maggiore flessibilità rispetto alle tradizionali fonti di finanziamento quali i prestiti bancari o i finanziamenti garantiti da ipoteca. I minibond sono obbligazioni (titoli di debito nel caso di srl) che anche le imprese non quotate possono utilizzare per raccogliere capitali beneficiando di vantaggi amministrativi e fiscali del tutto simili a quelli delle società quotate. Questo strumento finanziario rappresenta una valida alternativa anche alla classica raccolta di capitali attraverso l’emissione di obbligazioni singole per le pmi e le Mid cap, in quanto consente alle imprese emittenti di accedere sia a un ampio pubblico di investitori istituzionali e retail, sia a una serie di vantaggi come l’assenza di segnalazioni in Centrale rischi (la banca dati gestita da Bankitalia dove sono registrate tutte le esposizioni contratte da privati o imprese verso le banche e gli altri intermediari finanziari)

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Uno dei dibattiti più accesi tra i gestori di patrimoni, ma anche fra gli investitori, è se siano meglio i fondi attivi o quelli passivi. I primi cercano di battere il benchmark di riferimento: ad esempio, un fondo azionario europeo cercherà di far meglio dell’indice delle azioni europee. I fondi passivi, invece, in cui rientrano sia i fondi veri e propri sia gli Etf, titoli che sintetizzano e replicano un particolare mercato, non hanno quell’ambizioso obiettivo: si accontentano di seguire l’andamento dell’indice.
Definire disorientati gli investitori è dir poco, anche perché quanto accaduto negli ultimi decenni nei mercati finanziari ha demolito certezze e andamenti storici. Da inizio millennio sono già quattro le correzioni dai massimi superiori al 20% registrate nel mercato azionario Usa; il reddito fisso, dopo aver offerto rendimenti risibili, addirittura negativi, ha subito lo scorso anno un pesante ribasso che ha messo in crisi le strategie di portafoglio bilanciate, costruite proprio sulla decorrelazione tra azionie obbligazioni. Eppure, la combinazione di inflazione elevata e di rendimenti obbligazionari risaliti su livelli accettabili sembra aver fatto rinascere nei risparmiatori italiani la passione per le obbligazioni, soprattutto nella forma dell’acquisto diretto di titoli di Stato. Il collocamento riservato agli investitori individuali dell’ultimo Btp Italia, il titolo indicizzato all’inflazione, si è concluso con oltre 327 mila contratti, secondo risultato di sempre, per un controvalore superiore agli otto miliardi di euro. Ancora, tra ottobre 2022 e febbraio 2023 la raccolta netta complessiva in obbligazioni delle imprese aderenti ad Assoreti ha superato i 18 miliardi (su una raccolta titoli complessiva di 21 miliardi),per oltre il 70% rappresentate da titoli di Stato, a fronte di poco più di cinque miliardi raccolti dai prodotti di risparmio gestito e di deflussi per quasi sette miliardi per la liquidità che tradizionalmente nei momenti difficili funge da “parcheggio”.

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Se la «lista d’attesa» appartenesse a una corporazione, sarebbe certamente più corta. Ma qui si tratta di una lista senza rappresentanza, formata da milioni di cittadini dove ognuno subisce in solitudine il proprio disagio o si arrangia come può. Chi può. Eppure nessun governo ha mai dichiarato di voler tagliare la spesa sanitaria, al contrario sono sempre stati snocciolati miliardi di investimenti. Per capire se lo Stato ne tira fuori abbastanza gli esperti usano un indicatore: il rapporto tra i finanziamenti pubblici al Servizio sanitario nazionale e il Pil. Se l’incidenza percentuale rispetto al valore di tutti i beni e servizi prodotti nel nostro Paese è bassa, vuole dire che lo Stato non investe a sufficienza per la salute dei propri cittadini. Con 114,4 miliardi spesi nel 2019, l’Italia arriva alla pandemia con un livello di finanziamento rispetto al Pil del 6,4%, contro il 9,8% della Germania, il 9,3% della Francia e il 7,8% del Regno Unito (dati Ocse). Il 2020 è l’anno della spesa record: 120,5 miliardi, pari al 7,3% del Pil. La grande lezione del Covid è quella dell’impegno solenne: mai più risparmi e tagli sulla sanità. Cosa è successo dopo?

Per chi ha studiato e iniziato a lavorare dopo il 1996, solo in certi casi il riscatto di laurea può portare ad un anticipo corrispondente al numero di anni riscattati. Nel caso simulato, un 40enne lavoratore dipendente con un reddito di 1.800 euro netti mensili che avesse iniziato a lavorare a 25 anni potrebbe guadagnare «solamente» un anno e due mesi a fronte del riscatto di 5 anni di studi, passando dai 65 anni e 2 mesi ai 64 anni di età. Questo fenomeno avviene perché, per i soli lavoratori che hanno iniziato a lavorare dal 1996 in poi, è disponibile il requisito di pensione anticipata contributiva, che consente di andare in pensione a 64 anni di età (da adeguare per l’attesa di vita), depotenziando di fatto gli effetti del riscatto di laurea. Per quanto riguarda il valore dell’assegno, poiché l’anticipo è lieve, il riscatto finirebbe per fare aumentare il valore della pensione, che passerebbe dai 1.197 euro netti mensili senza riscatto ai 1.247 euro in caso di riscatto tradizionale e 1.203 euro in caso di riscatto agevolato. Il costo, al netto della deducibilità fiscale, sarebbe di circa 36.557 euro con il riscatto tradizionale e quasi la metà (20.357 euro) con quello agevolato.
Un anno e 4 mesi di anticipo dell’età della pensione a fronte del riscatto di 5 anni di laurea, con un assegno sostanzialmente simile nei tre scenari considerati, tra i 1.142 euro netti mensili ed i 1.221 euro. Per gli attuali 50enni, che mediamente hanno iniziato gli studi universitari nel 1992, la convenienza del riscatto di laurea, agevolato e non, va considerata con grande attenzione, perché – in molti casi – la storia lavorativa è iniziata dopo il 1996, ma gli anni di studi sono in parte collocati prima. Nel nostro ordinamento pensionistico, il 1996 è un anno spartiacque: per chi ha iniziato a lavorare entro il 1995, escludendo i requisiti speciali come Quota 103 o Opzione Donna, sono solamente due le modalità per accedere alla pensione: per limiti di età (pensione di vecchiaia, a 67 anni) o per anzianità contributiva (pensione anticipata, con 41 anni e 10 mesi di contributi per le lavoratrici, un anno in più per gli uomini).
Anche i 60enni possono valutare la convenienza del riscatto di laurea agevolato, a patto di fare bene i conti in base alla propria storia contributiva. Nel caso simulato, un lavoratore che avesse iniziato a lavorare a 25 anni, con continuità di carriera, potrebbe anticipare il momento della pensione di 4 anni e 5 mesi grazie al riscatto di 5 anni di studi, passando dai 67 anni e 3 mesi ai 62 anni e 10 mesi. L’ostacolo da considerare con attenzione è però il costo: con il riscatto tradizionale l’onere è legato al reddito, attraverso il meccanismo della «riserva matematica». Al lavoratore viene richiesto di versare una somma corrispondente all’incirca alla somma delle maggiori pensioni che si percepiranno a vita media. Soprattutto per chi ha molti anni di lavoro precedenti al 1995, l’onere può essere significativo: nel caso simulato è stimato in 101.395 euro. Per spendere circa un quinto (20.593 euro), grazie al riscatto di laurea agevolato, tuttavia, bisogna mettere in conto l’esercizio dell’irrevocabile opzione contributiva, chiedendo che tutta la propria pensione venga calcolata integralmente con il sistema contributivo, e non più con una parte valorizzata anche con il sistema retributivo. Tendenzialmente questo cambiamento diminuisce il valore dell’assegno: nel caso simulato si passa da 1.286 euro netti mensili con il riscatto di laurea tradizionale ai 1.098 euro con quello agevolato: quasi duecento euro netti al mese in meno. Questa riduzione per sempre del valore dell’assegno pensionistico va però confrontata con il minor costo del riscatto.
Corre il mercato del fintech italiano, che nel 2022 ha raggiunto una valorizzazione di 882 milioni di euro, con una crescita anno su anno del 240% degli investimenti del venture capital. Lo rileva il quinto Osservatorio Fintech PwC, che spiega come di pari passo stia aumentando anche la collaborazione con la finanza tradizionale. «Una tendenza che è stata alimentata dall’interesse degli incumbent (grandi aziende che dominano nel mercato, ndr) verso una fonte di innovazione caratterizzata dall’ampia disponibilità di soggetti con cui attivare sinergie», spiega Marco Folcia, partner transformation FS di PwC Italia. Tra i settori più maturi in cui operano le fintech italiane ci sono i pagamenti digitali, il lending e l’Insurtech, mentre altri, come l’asset management, il trading e l’open banking, sono ancora in una fase iniziale di sviluppo.