di Gabriele Capolino
Tanto tuonò che non piovve. Tutti si aspettavano che il 29 aprile i due miliardari ex paciscenti in Generali, Francesco Gaetano Caltagirone e Leonardo Del Vecchio, avrebbero estratto un coniglio dal cappello dell’assemblea convocata per il rinnovo del consiglio di amministrazione del gruppo assicurativo. E invece nulla è successo rispetto a quanto da giorni MF-Milano Finanza aveva annunciato. La lista del Cda uscente ha ottenuto ben più della maggioranza dei presenti in assemblea e la lista alternativa si è fermata al 41%. Tradotto in possessi azionari, a favore della lista che proponeva Andrea Sironi alla presidenza e la conferma di Philippe Donnet a group Ceo ha votato l’equivalente del 39% del capitale delle Generali. La lista alternativa si è fermata al 29% e rotti. Che è pochissimo di più di quanto era stato annunciato in precedenza: la somma delle quote di Caltagirone, Del Vecchio, Fondazione Crt a cui si è aggiunto nell’ultima settimana il voto dei Benetton e della Cassa Forense portava a una base di voti leggermente superiore al 27%. In assemblea la lista è riuscita a racimolare solo un 1,5-2% degli altri soci. In altre circostanze, come la tenzone tra Del Vecchio e i soci francesi di Essilor per il comando in EssilorLuxottica, a un passo dal traguardo erano spuntati congrui pacchetti azionari che avevano facilitato la vittoria dell’imprenditore italiano. Questa volta, niente.

Con il paradosso che, rispetto alla situazione precedente, Caltagirone ha investito circa 1,25 miliardi di euro per salire dal 5,66% al 9,95% si trova potenzialmente con meno persone in consiglio disposte a dargli retta. Infatti, prima delle sue dimissioni, nel consiglio scaduto Caltagirone poteva contare su un ascolto più attento delle sue istanze da parte di altri tre consiglieri, Paolo Di Benedetto, Romolo Bardin e Sabrina Pucci. Quindi erano in quattro su 13. Ora la lista alternativa vedrà tre protagonisti su 13: Caltagirone, la preparata professoressa Marina Brogi e il battagliero Flavio Cattaneo, in passato già consigliere di Generali. Non eletti nella lista Caltagirone sono i candidati alla presidenza Claudio Costamagna e il Ceo proposto Luciano Cirinà, che ora si trova anche fuori dal gruppo, che lo ha anche querelato.

L’assemblea del 29 aprile ha lanciato anche un messaggio preciso: nessun investitore estero ha votato per la lista Caltagirone. Evidentemente sia la proposta sia il modo con cui Caltagirone è arrivato alla lista alternativa non ha convinto nessun azionista estero. Intendiamoci: nei loro rispettivi ambiti, sia Caltagirone sia Del Vecchio sono più che rispettabili sia per lo stile di gestione sia per i risultati fin qui raggiunti. Ma non sempre la cassetta degli attrezzi che si usa per governare società in cui si possiede ben più del 50% risulta efficace quando si è azionisti di rilievo ma che necessitano del risparmio gestito per poter superare la metà dei voti più uno. E questo suona anche come un warning anche per il secondo tempo della partita, che si giocherà presumibilmente sul governo di Mediobanca. Il cda della banca sarà rinnovato (a meno di sorprese) nell’ottobre 2023. Nel 2020 la lista proposta dal cda prese il 42% dei voti. Ora Del Vecchio ha poco più del 18% e ha chiesto di salire ancora alla Bce, cosa che sarà difficile ottenere. E Caltagirone un 3%. E anche se ora ammantano le loro posizioni con la bandiera italiana, basteranno, visto quanto successo a Trieste?

Tornando al Leone, che cosa c’è da attendersi dopo il voto assembleare? Anzitutto, nelle prossime settimane si vedrà se e come Mediobanca e Caltagirone smonteranno parte dei loro rispettivi arsenali azionari. Mediobanca ha affittato un 4,5% di azioni Generali e Caltagirone ha un bel pezzo del suo 9,9% preso a pegno e un altro (bilanciato da un insieme di put e call, in gergo una posizione collar) che dovrebbe essere liquidato per come è costruito a meno di fare un rollaggio in avanti.

Caltagirone potrà continuare a dare battaglia in sede regolamentare e giudiziaria, contestando la validità di parte della base azionaria che lo ha sconfitto, anche se questa parte è inferiore al divario tra quanto ottenuto dalla sua lista e quella del cda. Oppure accetterà l’esito e darà battaglia in consiglio con la sua pattuglia agguerrita. Per il nuovo presidente Sironi, persona mite e sempre incline alla collegialità delle decisioni, si prospetta una stagione non facilissima.

Donnet, da buon ex rugbista, ha lavorato molto nella mischia, andando a cercarsi come advisor delle istituzioni molto avvezze alle battaglie campali come Bank of America ed Equita, quest’ultima abilissima nel destreggiarsi nelle sfide all’ultimo voto a cui è stata chiamata a partecipare. Ora il Ceo deve rimboccarsi le maniche e cercare di far quadrare un piano industriale, il suo, giudicato per alcuni versi già sfidante al momento della sua presentazione alla fine del 2021, con la tragedia della guerra in atto e le sue conseguenze per un gruppo molto presente proprio in aree limitrofe al conflitto.

Infine, come si inquadra la sfida che è (provvisoriamente) finita il 29 aprile, all’interno del sistema borsistico italiano? Senza fare paragoni assurdi, la vicenda di chi con il 27% intendeva comandare nell’unica public company multinazionale finanziaria italiana si è incrociata in questi giorni con quella di chi ha fatto un’offerta da 43 miliardi di dollari a tutti gli azionisti di Twitter per comprare le loro azioni, togliere la società dalla borsa e promettere di rivoltarla con un calzino. Come si vede nella tabella in questa pagina, dieci anni di tenzoni borsistiche nella borsa italiana hanno visto premiato quasi sempre chi, per prendere la guida di un’altra società, ha messo soldi sul banco, e tanti, a favore di tutti gli azionisti,. Gli investitori istituzionali giudicano il management e un consiglio di amministrazione dai risultati che porta. Se non hanno fatto disastri, chi si propone come loro alternativa deve, come recita un detto inglese, put the money where the mouth is. E quindi proporre un’operazione a vantaggio di tutti gli azionisti, come l’opa.
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