di Carlo Giuro
Mentre per i fondi di previdenza complementare il 2022 si è aperto in salita per via del boom dell’inflazione, gli importi degli assegni pubblici percepiti da chi è in pensione saranno invece un po’ più alti quest’anno. Nel nuovo Documento di Economia e Finanza (Def) si prevede che l’inflazione, a causa soprattutto del rincaro delle materie prime e dell’energia, aumenti del 5,8% nel 2022 contro una previsione dell’1,6% contenuta lo scorso autunno nella Nadef (la Nota di Aggiornamento del Def). Dopo il picco previsto per quest’anno si stima poi un rientro dell’inflazione già nel 2023.

A fronte dell’impennata del caro vita invece ci dovrebbe essere un’accelerazione più moderata delle retribuzioni e dei redditi da lavoro. Cosa succede sul fronte della previdenza pubblica? Dagli anni ‘70 le pensioni sono rivalutate in base all’andamento dei prezzi per proteggere il potere il loro d’acquisto, mettendole al riparo, almeno in parte, dall’erosione dovuta all’inflazione. Questo meccanismo (detto di perequazione), che ricorda la scala mobile degli stipendi poi abolita a inizi anni 90, era stato congelato nel 2020 per via della deflazione causata dalla pandemia, ma la recente impennata dei prezzi ha ribaltato la situazione con conseguenze sulla spesa pensionistica proprio per gli effetti derivanti dall’indicizzazione all’inflazione delle prestazioni significativamente più elevati rispetto a quelli considerati nella Nadef 2021, imputabili al notevole incremento del tasso di inflazione registrato a partire dalla fine del 2021. Per il 2022 il recupero dell’inflazione è stato fissato lo scorso novembre al +1,7% salvo conguaglio da effettuarsi nel 2023, una volta che si conoscerà l’importo definitivo dell’inflazione dell’intero 2022.

Oltre all’aumento degli assegni pubblici rivalutati in base all’inflazione, quest’anno c’è un ulteriore bonus per le pensioni derivante dal meccanismo di calcolo. Infatti dal 2022, dopo oltre un decennio, è di nuovo applicato il cosiddetto metodo «Scaglioni Prodi» in vigore fino al 2011, ovvero la rivalutazione sulla base delle fasce d’importo, con criteri quindi di progressività, che ha sostituito il meccanismo con scaglioni singoli di importo del metodo «Fasce Conte».

Quest’ultimo era stato introdotto in via sperimentale per tre anni nel 2019 e articolato in sei fasce cui vengono applicate percentuali secche di rivalutazione dal 100% al 40% sull’intero valore della pensione. Gli scaglioni Prodi sono più favorevoli per i pensionati (ma non per lo Stato), in quanto il meccanismo applica progressivamente la diminuzione dell’aliquota di rivalutazione per l’inflazione. Il metodo per fasce è invece più penalizzante per le pensioni medie e alte, perché la minor aliquota di rivalutazione viene applicata sull’intera pensione.Quindi il metodo Prodi imputa l’indice di rivalutazione delle pensioni nella misura del 100% per importi dei trattamenti pensionistici fino a quattro volte il trattamento minimo Inps (quest’ultimo è pari a 515,58 euro, quindi quattro volte è pari a 2.062,32 euro), poi del 90% per gli assegni tra quattro e cinque volte il trattamento minimo Inps, del 75% per le fasce di importo dei trattamenti pensionistici superiori a cinque volte il predetto trattamento minimo.

Ad esempio per una pensione lorda di 2.500 euro c’è una rivalutazione dell’1,7% fino a 2.062,32 euro (+35,06 euro) e dell’1,53% per i rimanenti 437,68 euro (+6,7 euro), per un totale di 41,76 euro. Con il metodo «Fasce Conte», la rivalutazione dello stesso assegno sarebbe stata inferiore: il 77% dell’1,7% (1,31%) sull’intero importo, pari a 32,72 euro in più. Il collegamento tra pensione e inflazione è oggetto di valutazione nel confronto tra governo italiano e sindacati che sta riprendendo in una prospettiva di una più ampia riforma della previdenza.

Per i sindacati andrebbero aggiornati i meccanismi di indicizzazione adottando panieri che rispecchiano meglio le esigenze della popolazione anziana. (riproduzione riservata)
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