Cosa accomuna Elon Musk, Leonardo Del Vecchio, Francesco Gaetano Caltagirone e Xavier Niel? Sono tutti imprenditori miliardari che negli ultimi mesi si sono scoperti attivisti. Le campagne di questi e altri Paperoni stanno alimentando un mercato quantomai dinamico. Stando ai dati raccolti da Lazard, nel primo trimestre del 2022 sono state lanciate a livello globale 73 nuove iniziative, un record. In Europa – territorio culturalmente meno avvezzo ad aspri confronti azionari – l’attività è aumentata del 50% con oltre 6 miliardi di dollari impegnati in 15 campagne. Molte società quotate stanno del resto subendo in borsa il peso dell’inflazione, dei tassi in rialzo, del rallentamento economico. E le correzioni rappresentano il punto d’ingresso prediletto degli attivisti che ambiscono a invertire la rotta azionaria di compagnie a loro giudizio mal gestite e sottovalutate. A muovere i Paperoni sono in realtà ragioni diverse, raramente speculative: motivi ideali, politici, industriali. «In linea di principio, per i multimiliardari non sussistono presupposti tecnici forti per cimentarsi nell’attivismo su singole partite», osserva Vincenzo Tortorici, managing director e senior partner di Boston Consulting Group. «I loro patrimoni sono così ampi e diversificati che l’impatto di una lunga e impegnativa campagna interventista avrebbe un peso tutto sommato relativo nella ponderata complessiva di portafoglio». I loro molteplici interessi industriali rappresentano peraltro un ulteriore disincentivo all’avvio di battaglie dove il nemico di oggi può diventare l’amico di domani e viceversa. Come adombrato da Jeff Bezos, per esempio, l’intervento su Twitter potrebbe mettere Musk in rotta di collisione con il governo cinese, dal cui benestare dipende la futura prosperità di Tesla nel primo mercato auto al mondo. A dispetto di quanto consiglierebbero logiche economiche e politiche, però, alcuni miliardari avvertono il bisogno di gettarsi nell’agone azionario. «Esiste una categoria di Paperoni, forse inquadrabili come “passionali”, che si cimentano nell’attivismo non per ragioni strettamente finanziarie, ma per finalità variegate», rimarca. «Talvolta è un mix di passione e adrenalina per specifici settori o “partite”, quasi fosse uno sport estremo, talaltra sono ideali nobili o filantropici – come la protezione dell’ambiente, istanze sociali o la volontà di lasciare un’eredità sul proprio territorio – talvolta una visione quasi fideistica sul futuro, talaltra banalmente un mix di ego e desiderio di visibilità su piazza». A questa categoria si possono ricondurre a vario titolo le iniziative filantropico-finanziarie di Bill Gates, l’interesse libertario (?) dell’eccentrico Musk per Twitter, l’investimento campanilistico di Vittorio Malacalza in Banca Carige, l’ostinata determinazione di Del Vecchio nel fare dell’Istituto Europeo di Oncologia un dono alla città di Milano. «Le sortite dei “Paperoni passionali” producono ampia varianza di esito finanziario; ma, per costrutto, non era il ritorno l’obiettivo precipuo di partenza», assicura Tortorici. Eventuali perdite costituiscono del resto gocce nei loro patrimoni oceanici. Non per questo, tuttavia, risultano meno indigeste, diventando potenzialmente foriere di campagne più strutturate. «Altri multimiliardari, una minoranza, nell’intraprendere iniziative attiviste agiscono invece a tutti gli effetti come investitori professionali istituzionali», prosegue. «Si tratta per lo più di imprenditori “di lungo corso”, self-made men, che hanno spesso creato e gestito in prima persona imperi industriali, e che intendono tracimare nelle partecipazioni finanziarie il decision making forte che li caratterizza “a casa propria” e a cui attribuiscono i loro successi». La ferrea volontà, la rapidità di decisione e il verticismo con cui hanno costruito la loro fortuna aziendale, tuttavia, si rivelano spesso controproducenti nell’approccio alle grandi organizzazioni, burocratiche e avvinte in un delicato intreccio di interessi economico-politici. «La loro impostazione gestionale molto personale, diretta e pragmatica si scontra inevitabilmente con le prassi manageriali e i “rituali corporate” delle grandi aziende», rimarca Tortorici. «Le loro rivendicazioni finiscono spesso impantanate “nel Vietnam” delle complessità di funzionamento delle grandi aziende, e alla lunga finiscono spesso sterilizzate». Che sia questo il destino delle campagne di Caltagirone e Del Vecchio in Generali e Mediobanca? L’assemblea della compagnia assicurativa ha assegnato il primo round al management, ma il match si preannuncia lungo e senza esclusioni di colpi. Ad aggiudicare la vittoria finale sarà il mercato che negli ultimi tempi è diventato più esigente nei confronti dei cda delle quotate. Secondo Lazard, il 40% delle campagne avviate fra gennaio e marzo 2022 puntava a un ricambio al vertice, mentre il 30% aveva come obiettivo la conclusione di operazioni m&a, in ingresso o più spesso in uscita. A promuoverle sono non soltanto accaniti attivisti come Elliott, Starboard, Carl Icahn, ma sempre più spesso anche asset manager tradizionali come Temasek, Candriam, Janus Henderson o Abrdn. Sferzati dalla concorrenza dei fondi passivi, questi gestori cercano nell’attivismo una giustificazione alle commissioni più elevate applicate ai risparmiatori. Da qui lo scrutinio più severo della correlazione fra performance aziendale e stipendi pagati ai manager (culminato nella bocciatura dei compensi di Stellantis), nonché il crescente sostegno in assemblea alle risoluzioni in materia di trasparenza fiscale e impegno ambientale. Da espediente speculativo, insomma, l’attivismo si sta trasformando in una tecnica più sofisticata e di conseguenza in una leva azionabile da una platea più ampia di investitori, Paperoni compresi. «I fondi attivisti hanno compiuto un percorso di maturazione per certi versi simile ai private equity», ricorda. «Nascevano come iniziative puramente speculative, mordi e fuggi, che si concretizzavano nell’acquisto di piccole partecipazioni sul mercato e in una serie di azioni randomiche “di disturbo”, volta a ottenere una generosa e rapida buonuscita. Poi il focus si è spostato sulla promozione di specifiche iniziative ben studiate di “miglior gestione” e/o di m&a ristrutturativa, orientate a innescare apprezzamento del titolo in tempi brevi». Oggi, conclude Tortorici, «questi attori hanno capito che per generare valore non bastano set di iniziative lampo, ma serve una visione industriale a lungo termine e un nuovo management che si occupi della gestione quotidiana: per correggere la rotta dell’azienda, cambiano capitano e ciurma» (riproduzione riservata).
Fonte: