Tanta paura di essere vittima di frodi online o attacchi digitali, ma poche azioni concrete per prevenire questi eventi. Si potrebbe riassumere così il rapporto degli italiani con la cybersecurity, con un gap che però va colmato il prima possibile come ha confermato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega alla sicurezza, Franco Gabrielli, nel corso della presentazione del primo Rapporto Censis-DeepCyber sulla sicurezza informatica in Italia. Cosa dicono i dati? Il 61,6% degli italiani è preoccupato per la sicurezza informatica e adotta sui propri device precauzioni per difendersi. Nel gruppo di chi teme per la propria sicurezza cybernetica, solo il 18% si rivolge a un esperto, mentre oltre 8 su 10 ricorrono a software e app di tutela. Il problema è che il 28,1%, pur dichiarandosi preoccupato, non fa nulla di concreto per difendersi, mentre il 10,3% non ha alcuna preoccupazione sulla sicurezza informatica.

In generale, quindi, quasi 4 italiani su 10 sono indifferenti o non si tutelano dagli attacchi informatici. Di fatto, non c’è ancora una compiuta consapevolezza dell’importanza di culture, strategie, tecnologie, competenze e sistemi di protezione informatica per il nostro benessere: ad oggi, oltre un terzo degli italiani non fa nulla per la sicurezza dei propri dispositivi informatici e solo 1 su 4 ha un’idea chiara di cosa si intenda con la parola cybersecurity. Eppure l’attualità ha presentato casi di cronaca finiti sotto i riflettori. Phishing, ransomware, trojan o malware, sono termini diffusi, che richiamano alcune delle minacce informatiche con cui gli italiani fanno pressoché quotidianamente i conti, a cui si aggiungono appunto gli attacchi informatici in grande stile (più mediatici) verso istituzioni o aziende maggiori. Tra gli esempi ci sono gli attacchi contro l’Inps nella fase iniziale dell’emergenza sanitaria o quelli contro istituzioni sanitarie ed i sistemi di prenotazioni vaccinali o, più di recente, quelli che hanno bloccato i sistemi di bigliettazione nelle stazioni ferroviarie. Tra le attività che gli italiani percepiscono come a più alto rischio per il furto d’identità figurano la navigazione web con consultazione di siti (57,8%), l’utilizzo di account social, da Facebook ad Instagram (54,6%), gli acquisti di prodotti online (53,7%), le operazioni di home banking (46,6%), le prenotazioni di viaggi e hotel (41,5%), l’utilizzo di app per incontri e relazioni come Tinder (41%), l’utilizzo di programmi di messaggistica istantanea come Whatsapp (40,2%), il pagamento online di bollettini (38,4%), la partecipazione a webinar o incontri online che richiedono l’iscrizione con propri dati (38,3%), ma anche la richiesta o l’accesso a servizi digitali della pubblica amministrazione, ad esempio, tramite Spid (30,8%). Ad essere più spaventati sono i giovani. Si tratta di cyber-paure che condizionano il rapporto con il digitale, si legge nello studio del Censis, e che rischiano di sovrapporsi alle paure fisiche e materiali, amplificando all’estremo l’incertezza sociale.

Come detto, gran parte dell’insicurezza informatica è legata alle molte forme di pagamento online. Al 17,2% è infatti capitato di scoprire acquisti sul web fatti a suo nome e a suo carico e al 14,3% di avere la carta di credito o il Bancomat clonato. Il 13,8% ha subito violazioni della privacy con furti di dati personali da un device oppure con la condivisione non autorizzata di foto o video. Uno su 10 ha invece vissuto il trauma di scoprire sui social account fake con il proprio nome, identità o foto, mentre il 20,8% ha ricevuto richieste di denaro da persone conosciute sul web e il 17,1% ha avviato conversazioni online con persone presentatesi con falsa identità. In crescita anche i fenomeni di cyberbullismo: il 28,2% degli studenti dichiara di aver ricevuto nel corso della propria carriera scolastica offese, prese in giro, aggressioni tramite social, Whatsapp o la condivisione non autorizzata di video. Un processo che gli autori del rapporto considerano per certi versi inevitabile visto l’elevato tasso di digitalizzazione dei più giovani.

Venendo alle aziende, quasi 2 occupati su 10 hanno sperimentato attacchi informatici con danni agli account social o al sito web della propria azienda, il 14,7% ha dovuto confrontarsi con la perdita di dati o informazioni aziendali a causa di un cyber attacco. In questo senso il cosiddetto smartworking non ha aiutato. A più della metà degli occupati infatti capita di lavorare in smart working o di svolgere alcune attività da remoto e di questi, il 59,6% utilizza device aziendali mentre il 20,1% non tiene separati i device del lavoro da quelli personali. Per fortuna dal 24 febbraio, ovvero da quando è scoppiato il conflitto in Ucraina, in Italia «non abbiamo registrato significativi innalzamenti di attacchi informatici», ha spiegato Gabrielli. Il problema però non sono i momenti straordinari ma la quotidianità. «Il rischio zero non esiste», ha sottolineato il sottosegretario, «ma se non vi è consapevolezza dei rischi è complicato porvi rimedio». Un passo fondamentale, ha ribadito Gabrielli, è smetterla di pensare che ci sia un mondo virtuale separato dalla nostra vita reale. «Siamo partiti tardi e abbiamo perso tempo», ha commentato ancora il sottosegretario, ma ora dobbiamo «creare un meccanismo di resilienza del Paese e soluzioni per mitigare il più possibile questa situazione». (riproduzione riservata)
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