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di Stefano Pompeo,
Financial & Specialty Markets Underwriter

 

 

È inutile negarlo: la recente pandemia ha cambiato in maniera significativa le nostre vite.

Dobbiamo però ammettere che la situazione contingente che abbiamo affrontato con tante difficoltà e fatiche ci ha dato quella spinta che probabilmente mancava. Stavamo vivendo un periodo in cui tutto il sistema continuava a crescere ma non a migliorare, a produrre ma non ad innovare, ma soprattutto ad invecchiare e rallentare da un punto di vista tecnologico.

Naturalmente non stiamo parlando dei grandi colossi tecnologici come Facebook (ora Meta, scusate) o Google, bensì delle miriadi di piccole, medie e grandi imprese che compongono il tessuto produttivo italiano. Sono queste le aziende che hanno dovuto spingere sul pedale dell’acceleratore per riprendere il passo della rivoluzione tecnologica che sta, ora, avendo luogo in tutto il mondo.

Marzo 2020, è questa la data che ha spinto la gran parte delle società italiane a investire nel digitale, ad innovarsi e a rendersi più flessibili. È diventato un must. Per poter lavorare è diventato necessario farlo a distanza, da casa.

Facile immaginare che la maggior parte delle attività produttive abbiano dovuto dotarsi da zero (o quasi) di strumentazioni e infrastrutture informatiche al passo coi tempi.

Essendo questo il contesto, è chiaro come si siano sviluppate sempre più professioni legate ai servizi informatici o digitali: dai programmatori ai rivenditori di software, dai provider di data center o soluzioni in cloud ai produttori di hardware.

E parlando di tematiche così particolari e delicate, quanto diversificate che spaziano, a titolo esemplificativo, dalla programmazione di un sito web per il fiorista del paese, alla realizzazione dell’intera infrastruttura ICT di una azienda con 5 miliardi di fatturato, è facile comprendere quanto possa essere facile e frequente commettere qualche errore.

E se per le professioni regolamentate è lo stato a richiedere una copertura assicurativa, in questo caso è solo il buon senso del professionista o della società.

I rischi che interessano queste professioni sono diversi e molti di loro possono essere coperti grazie ad una polizza di RC professionale dedicata.

Basti pensare ad un difetto o un’imperfezione in un software che pregiudichi l’attività di un cliente, la perdita o il danneggiamento causato ai dati di un cliente o di un terzo oppure la violazione di qualche diritto d’autore o di una licenza. Resta naturalmente inteso che deve trattarsi di casi accidentali e senza intenzione.

Rientrano tra queste fattispecie anche eventuali carenze o disservizi in consulenze per l’implementazione di software o hardware all’interno della propria infrastruttura ICT, così come un mancato aggiornamento di un software o la violazione di un service level agreement (qualora questo sia ragionevole).

Giusto per dare un dato – e fare un esempio – gli attacchi informatici considerati gravi sono aumentati del 10% nel 2021 rispetto al 2020.

Questi attacchi sono per gran parte facilitati da sistemi e software obsoleti. Voi non vedete una responsabilità anche di chi ha fornito questi sistemi? O di chi si occupa della sicurezza informatica? O di chi gestisce i data center?

In conclusione, si tratta di professioni estremamente specifiche e tecniche, che la maggior parte di noi non penserebbe di poter svolgere.

Si opera in ambiti in cui l’essere aggiornati è fondamentale e il non stare al passo coi tempi potrebbe portare ad un’indicazione sbagliata sull’acquisto di un software o al mancato aggiornamento di un particolare sistema per il quale è stata scoperta una grave vulnerabilità (si pensi ai recenti casi log4j, Solarwind Orion o Kaseja). Inutile sottolinearne le conseguenze dannose.

Perché quindi non informarsi e proporre ai propri clienti subito una copertura assicurativa in grado di fornire protezione anche contro questi errori professionali tecnologici?

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