Secondo l’Onu entro il 2100 l’aspettativa di vita potrà arrivare a un secolo La longevità obbliga a ripensare il welfare per adattarlo alle esigenze del cambiamento demografico in corso. E all’impatto delle nuove scelte di vita e di carriera sulle pensioni
di Paola Valentini

Il traguardo dei 100 anni non è così lontano. Chi viene al mondo oggi ha una attesa di vita in media attorno agli 85 anni, un netto balzo in avanti rispetto ai nati a metà del 1900 per i quali l’orizzonte era attorno ai 70 anni. Grazie al progresso scientifico, secondo le stime dell’Onu che arrivano al 2100, tra qualche decennio la possibilità di avere un’esistenza lunga un secolo non sarà poi così un’eccezione (grafico in pagina). L’Oms stima che nei prossimi 30 anni la percentuale della popolazione mondiale sopra i 60 anni salirà dal 12 al 22%. La longevità porta ovviamente la necessità di garantire non soltanto che la lunga fase della vecchiaia venga trascorsa il più possibile in salute, e l’evoluzione della sanità è già al lavoro su questo, ma anche che le persone abbiano risorse finanziarie a sufficienza per sostenersi così a lungo. Tutto ciò porrà sfide ai sistemi di welfare pubblici. Ci sarà quindi un aumento della popolazione oggetto di cure sanitarie. Ma si avranno anche maggiori pressioni sui sistemi previdenziali perché l’allungamento della vita, combinato con il calo della natalità, provocherà sempre più uno squilibrio tra la base di occupati che lavorano e mettono da parte i contributi che servono a pagare la pensione di chi si è ritirato, come prevede il sistema a ripartizione che è poi quello previsto in Italia. Smileconomy ha analizzato l’evoluzione dal 1872 al 2062 del rapporto tra under 5 e over 60, ogni 20 anni. Dai dati emerge che 150 anni fa c’erano 0,6 over 60 per ogni bambino di età fino a 5 anni. Allo scoppio del secondo conflitto mondiale c’è quasi il pareggio: 5,2 milioni di bimbi rispetto 4,9 milioni di over 60. Le cose cambiano radicalmente nel dopoguerra: il rapporto sale a 1,4 nel 1962. Dopo altri 20 anni, nel 1982 si passa a 2,4. Nel 2002 a 4,5 over 60 per ogni bimbo fino a cinque anni, per arrivare ad un rapporto di 7 oggi. Il trend non si ferma nemmeno per il futuro per arrivare ad un valore di quasi 10 (9,5) nel 2062. «Il diverso peso tra le generazioni è uno dei grandi temi da affrontare: come faranno meno lavoratori a sostenere il welfare per i futuri pensionati sempre di più, e più in generale il sistema sanitario e le altre voci di spesa?», osserva Andrea Carbone, fondatore di smileconomy.

Bisogna quindi avere il coraggio di pensare nuovi schemi pensionistici pubblici e privati che tengano conto del cambiamento demografico e delle aspettative che esso comporta. E’ necessario rivedere l’approccio al risparmio pensionistico nell’ottica di fare una pianificazione finanziaria lungo un orizzonte temporale di molti decenni. Le risorse non mancano, andrebbero però indirizzate meglio verso una corretta pianificazione. «Le famiglie italiane hanno 3.450 miliardi di euro di ricchezza finanziaria investibile. Il 40%, ovvero 1.400 miliardi di euro, è detenuto dalla generazione che comprende la fascia d’età inclusa tra i 45 e i 65 anni e sarà la prossima a doversi occupare di come affrontare la propria longevity», afferma Antonella Massari, segretario generale dell’Aipb.

Anche guardando l’evoluzione dell’attesa di vita a 65 anni, la dinamica cambia, e di molto, a partire dal secondo dopoguerra: la longevità cresce rapidamente di ventennio in ventennio, arrivando ad essersi praticamente raddoppiata nel 2022 rispetto a 100 anni prima. «Nonostante le incertezze legate alla pandemia, anche le previsioni Istat per il futuro vedono ancora una crescita, che potrà spingere l’attesa di vita a 23 anni per gli uomini e 25 per le donne. Ricordiamo che la media rappresenta l’età che la metà dei pensionati 65enni raggiungerà e supererà», rileva Carbone. Questo dato costituisce, da solo, una delle sfide da affrontare e che apre lo spazio per ripensare i tempi della propria vita: 20, 25 o 30 anni di durata della pensione sono infatti un lunghissimo periodo da pianificare con cura anche alla luce dei diversi possibili percorsi di vita che, in una società in via di invecchiamento e caratterizzata da forme di lavoro sempre più flessibili, si fanno sempre più variegati.

«Una rottura del tradizionale percorso sociale scuola-lavoro-pensione si sta già verificandosi per milioni di persone. Quando i lavoratori invecchiano, alcuni non hanno desiderio di andare in pensione, ma anche durante la carriera le persone possono decidere di prendersi una pausa per crescere i figli, accudire parenti malati, o tornare a scuola per ottenere nuove competenze che permettano di avanzare o cambiare occupazione», afferma Haleh Nazeri, responsabile della longevità del World Economic Forum. Di conseguenza i piani di pensionamento a compartimenti, visti finora, dove il denaro viene risparmiato per essere speso negli ultimi anni della vita, diventano poco funzionali. «Molte persone vorranno spendere quei soldi durante una delle transizioni che oggi possono essere viste come una interruzione della carriera, ma che un giorno saranno considerate parte del regolare flusso di una vita lunga e produttiva», aggiunge Nazeri.

MF-Milano Finanza ha chiesto a smileconomy una simulazione per mostrare quello che accade se ad esempio si decide di introdurre un’aspettativa di cinque anni. «Abbiamo analizzato un dipendente 30enne, che ha iniziato a lavorare a 25 anni, con un reddito netto mensile di 1.800 euro e un versamento in previdenza integrativa di 200 al mese», spiega Carbone.

Con una carriera lineare, andrebbe in pensione a 65 anni e 10 mesi, con un assegno di 1.224 euro e una pensione integrativa di 386 euro (tabella in pagina). «Il primo dato interessante è che un’interruzione di cinque anni potrebbe non modificare il momento della pensione, perché saremmo sul limite del valore della pensione anticipata contributiva, ma solamente il valore. Prima si prende l’aspettativa, maggiore è l’effetto sulla riduzione dell’assegno pensionistico, perché si riducono gli anni che godono della rivalutazione dei contributi», dice Carbone. In sostanza più la pausa è anticipata e più si fa sentire l’impatto della mancata capitalizzazione composta dei contribuiti non versati. Se questo lavoratore interrompesse il lavoro per cinque anni a 40 anni ad esempio per dedicarsi totalmente ai propri figli, la pensione pubblica calerebbe da 1.224 a 1.096 euro, così come l’integrativa (da 386 a 326 euro). Se facesse una pausa a 45 anni, perché magari vuole cambiare prospettiva professionale, i valori sarebbero lievemente superiori. Così come nel caso di un lavoratore che dovesse interrompere per cinque anni a 50 anni per dedicarsi all’assistenza di un famigliare.

«Per rendere più confrontabili i casi, abbiamo introdotto la somma della ricchezza a vita media, che comprende i redditi da lavoro persi negli anni di aspettativa e gli assegni previdenziali attesi. Ovviamente il valore più elevato si ha per chi ha una carriera continua, con circa 408.500 di ricchezza. Un’aspettativa di cinque anni non solo abbasserebbe per sempre l’importo della pensione pubblica e integrativa, ma priverebbe di cinque anni di redditi da lavoro. La rinuncia in termini complessivi, a vita media, sarebbe di circa 150 mila euro. Proprio per ovviare a questa situazione, abbiamo fatto un diverso scenario, in cui i lavoratori decidono di recuperare i cinque anni, proseguendo l’attività di cinque anni, una volta raggiunta l’età pensionabile», aggiunge Carbone.

Qui il calo di ricchezza rispetto a chi decidesse di non recuperare sarebbe più limitato, con circa 100 mila euro di ricchezza a vita media in più. La pensione pubblica infatti sarebbe sempre superiore ai 1.224 euro di chi smettesse, senza interruzioni, a 65 anni e 10 mesi. I cinque anni in più, non solo consentirebbero di recuperare i cinque anni di contributi non versati, ma anche di godere di un miglior coefficiente di trasformazione in rendita per via dell’età più elevata. «Naturalmente ai numeri vanno affiancati i progetti, le condizioni famigliari, di salute e lavorative. Una sfida nella sfida, di fronte ai nuovi scenari che la crescente longevità delinea per gli individui e per la collettività», conclude Carbone. (riproduzione riservata)

Vavassori (Amundi), più concorrenza nelle rendite
di Paola Valentini
Amundi Sgr è uno dei principali gestori di fondi pensione aperti in Italia, con oltre 120 mila aderenti e un patrimonio di quasi 3 miliardi di euro. Nadia Vavassori, a cao della divisione Pension Saving Funds del gruppo, non ha dubbi: i fondi pensione sono uno strumento trasparente, ma a distanza di 30 anni dalla loro nascita in Italia, bisognerebbe intervenire sulle tre tappe del ciclo di vita (gli anni prima dell’occupazione, la fase lavorativa e il pensionamento) per adattarli al nuovo mondo di lavorare e vivere nel XXI secolo e perché diventino più inclusivi. Non è un caso se, come rivela l’Indagine WTW Global Benefits Attitudes 2022, il benefit su cui i lavoratori italiani vorrebbero maggiormente supporto dalla propria azienda è proprio il fondo pensione (47%).

Domanda. Dottoressa Vavassori, sul fronte della previdenza complementare quali possono essere i passi da compiere per adattarla a una longevità senza precedenti?

Risposta. Si potrebbero fare davvero molte cose, per esempio ampliare la deducibilità fiscale dei contributi come è stato fatto per i Pir. Oggi l’iscritto può dedurre 5.164,57 anno all’anno, pochi per chi in maniera lungimirante avesse deciso di iniziare in anticipo la costruzione di una pensione di scorta al proprio figlio prima che questo entri nel mondo del lavoro. Questo perché tale importo copre i contributi versati sia per la propria posizione, sia quella dei suoi famigliari per i quali l’aderente avesse deciso di aprire un fondo pensione.

D. A proposito di giovani, come tarare la previdenza integrativa?

R. Nei report sulle nuove assunzioni vediamo che i giovani vogliono sempre più un bilanciamento tra vita privata e vita professionale quindi probabilmente per loro non ha più senso parlare di pensioni in senso stretto ma di investimento di lungo periodo per finalità previdenziali. Come industria dobbiamo individuare i bisogni finanziari e poi dovremmo accompagnarli per un periodo di tempo molto lungo, stiamo parlando di almeno 30 anni, in funzione della capacità di generare reddito, a comporre in maniera molto flessibile investimenti nei corretti strumenti che peraltro esistono e sono ben equipaggiati anche con agevolazioni interessanti: i fondi pensione aperti ma anche altri prodotti individuali di previdenza sono semplici, vigilati e trasparenti. Sarebbe utile inoltre che contributo alla previdenza complementare sia previsto nel contratto di assunzione.

D. E’ un’esigenza che emerge in Italia. Come potrebbe essere soddisfatta?

R. Oggi i contributi Inps pesano circa il 34% e si potrebbero chiedere al datore di lavoro uno o due punti percentuali di questa quota. L’importante è iniziare presto, il problema è che bisognerebbe avere una essere una contribuzione bilaterale, di azienda e lavoratore, come accade nella previdenza pubblica. Dopodiché l’industria oggi dovrebbe concentrarsi molto di più sulla creazione di rendite.

D. Perché?

R. All’estero la cultura della rendita previdenziale si avvale di strumenti e di prezzi molto più calibrati rispetto all’Italia dove il mercato è costruito per gestire il rischio demografico e di fatto oggi è monopolio delle compagnie. Se invece apriamo il mercato ad altri soggetti, stimoliamo l’innovazione. Quindi bisognerebbe come industria ottimizzare questo settore, la fase di decumulo l’abbiamo un po’ trascurata. (riproduzione riservata)

Mariani (Pegaso), rafforzare il silenzio assenso
di Carlo Giuro
Le forme pensionistiche integrative vivono una stagione di profonde evoluzioni, in attesa di un nuovo intervento. Per la prossima riforma delle pensioni si pianifica una nuova finestra di silenzio assenso, sul modello di quella varata nel 2007 che aveva di fatto lanciato la previdenza integrativa in Italia grazie al contributo del tfr che è stato destinato ai fondi pensione, salvo scelta contraria del lavoratore. Ma a distanza di 15 anni le iscrizioni alla previdenza integrativa restano basse soprattutto tra le nuove generazioni. Per Andrea Mariani, direttore generale del fondo pensione negoziale Pegaso, il comparto di categoria per i dipendenti delle imprese dei servizi di pubblica utilità, due sono gli aspetti su cui si dovrebbe fare leva affinché il meccanismo del silenzio assenso sia efficace. «Innanzitutto, prevedere un’iscrizione automatica del lavoratore, accompagnata però anche dalla contribuzione a carico del datore di lavoro, cosicché in futuro la scelta più semplice sia rappresentata dal mantenere il tfr nel fondo anziché riportarlo in azienda». Inoltre, secondo Mariani bisognerebbe «prevedere che l’adesione effettuata con queste modalità, costituisca un periodo di prova del fondo pensione per un termine temporale congruo, ad esempio 12 mesi, così da consentire al lavoratore di verificare l’effettiva convenienza dell’iscrizione e facendo sì che la stessa non solo sia una scelta consapevole ma anche l’opzione favorita». Al fine di garantire poi la massima flessibilità agli iscritti, soprattutto all’avvicinarsi del raggiungimento del requisito pensionistico, inoltre «si dovrebbe consentire il trasferimento al fondo pensione del tfr maturato, anche qualora sia accantonato presso l’Inps, così come viceversa il ricongiungimento di tutta o parte della posizione accantonata nel fondo con i versamenti fatti al sistema di previdenza obbligatoria, come alternativa a una richiesta di rendita sempre meno appetibile sul mercato in termini di condizioni offerte dalle compagnie di assicurazione». (riproduzione riservata)

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