Pagina a cura di Stefano Loconte e Giulia Maria Mentasti

Lo scudo non protegge dalla condanna per riciclaggio. È quanto stabilito dalla seconda sezione penale della Corte di cassazione con sentenza n. 7257/2020, la quale ha ritenuto irrilevante ai fini della sussistenza del riciclaggio che le singole operazioni poste in essere, e in particolare l’utilizzo dello scudo fiscale, il deposito su conti cointestati, e la donazione delle somme fossero tutte lecite. Dovendosi far riferimento alla sola finalità del soggetto agente volta a schermare la provenienza delittuosa del denaro o dei beni, può ben sussistere il delitto di riciclaggio in caso di somme che erano frutto di evasione fiscale pur risalente a decenni precedenti, e che peraltro erano state regolarmente scudate prima di essere fatte rientrare in Italia.

Il caso. Nel caso di specie, il Tribunale di Genova in funzione di giudice del riesame aveva confermato il decreto con cui il Gip aveva disposto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta di somme di denaro e titoli per un importo complessivo pari a quasi 2 milioni di euro o, in via subordinata, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente di beni mobili o immobili e di qualsiasi altro bene fino alla concorrenza del suddetto importo, in relazione al reato di riciclaggio.
Secondo l’ipotesi d’accusa, la condotta di riciclaggio aveva a oggetto le somme provento dei reati in materia di violazioni tributarie, contrabbando e truffa, e si era articolata in una pluralità di atti concretizzati in un arco temporale di circa quindici anni: in sintesi uno degli indagati, socio di una impresa svizzera, nel 2000 aveva depositato su conti elvetici tali somme, che alcuni anni dopo erano state portate a emersione e regolarizzate attraverso lo scudo fiscale, nonché depositate su conti italiani a lui intestati con delega a operare ad altro soggetto. Successivamente, nel 2015, con una serie di operazioni e con un atto di donazione le somme erano state definitivamente trasferite a un terzo soggetto.

Gli argomenti difensivi. La difesa impugnava l’ordinanza per aver fatto rientrare la pluralità di atti compiuti dal 2000 al 2015 in un’unica ipotesi di riciclaggio pur in assenza dei presupposti da considerarsi essenziali, ovvero che gli atti successivi a una primigenia condotta decettiva volta a ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa di una determinata provvista siano immediatamente esecutivi del medesimo progetto iniziale.
Al contrario, si sosteneva che nel caso concreto tutte le operazioni contestate fossero slegate dalla condotta originaria di riciclaggio eventualmente commessa nel 2000, sia perché perfettamente legittime e munite di specifiche e autonome cause giuridiche, sia perché prive di un’intrinseca funzione decettiva, essendo state eseguite in modo trasparente attraverso peraltro uno strumento, lo scudo, non solo non prevedibile nel 2000, ma autorizzato da una legge dello Stato.
Pertanto, non potendosi considerare come illecite le condotte successive a quella compiuta nel 2000, qualsivoglia ipotesi di riciclaggio era in ogni caso ampiamente prescritta.

La decisione della Cassazione sugli atti leciti integrativi del riciclaggio. La Cassazione ha ritenuto infondato il ricorso sottolineando che il riciclaggio è un reato a forma libera, con la conseguente impossibilità di una preventiva tipizzazione delle condotte che, in concreto, vengono strumentalizzate al perseguimento della finalità di occultare la provenienza delittuosa del denaro, dei beni o delle altre utilità.
Proprio tale evidenza impediva l’accesso all’assunto difensivo secondo cui il reato di riciclaggio non può essere commesso con atti di disposizione leciti (come il ricorso al cosiddetto scudo fiscale) ovvero pubblici (come la donazione).
In realtà, ha rimarcato la Corte, ciò che fa ricadere una condotta nel tipo del reato di riciclaggio non è la liceità o l’illiceità in sé dell’atto compiuto, quanto la direzione finalistica che a questo viene impressa dal soggetto agente, che lo usa per schermare la provenienza delittuosa del denaro (del bene o dell’utilità) oggetto dell’atto medesimo.
Ne consegue che la forma libera del reato di riciclaggio consente che quell’effetto di oscuramento possa essere astrattamente realizzato con atti leciti, anche tra loro distinti pure sul piano temporale, purché siano ricondotti a unità dall’obiettivo comune cui essi sono finalizzati, ossia l’occultamento della provenienza delittuosa del denaro che costituisce il loro oggetto.
Non è essenziale, inoltre, che l’agente individui e preveda fin dall’inizio del proprio progetto delittuoso i singoli atti che andrà a compiere per perseguire la finalità di occultamento, ben potendo accadere che i singoli atti siano individuati nel corso della sua attuazione, in base alle eventuali sopravvenienze ovvero in base allo sviluppo concreto degli eventi che rendono preferibile un atto piuttosto che un altro ovvero mettono a disposizione atti precedentemente non previsti dall’ordinamento giuridico, che possono rendere più efficace l’azione nella prospettiva di rendere definitiva e/o di consolidare l’acquisizione del provento del delitto.
Sono risultate infondate, pertanto, le obiezioni difensive che lamentavano l’impossibilità di configurare il riciclaggio in ragione dell’autonomia delle singole condotte, della loro liceità e in quanto non previste e non prevedibili al momento del compimento della primigenia condotta di riciclaggio.

In punto di prescrizione. Altresì, la Corte ha censurato i rilievi in punto di prescrizione, in quanto supponevano che il reato si fosse consumato nel 2000, ossia al tempo in cui veniva realizzata la prima condotta di riciclaggio.
In particolare, una volta stabilito che l’ipotesi concreta si era sviluppata lungo più atti compiuti nel tempo, la Corte ha fatto riferimento all’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, là dove chiarisce che «in tema di riciclaggio, ove più siano le condotte consumative del reato, attuate in un medesimo contesto fattuale e con riferimento a un medesimo oggetto, si configura un unico reato a formazione progressiva, che viene a cessare con l’ultima delle operazioni poste in essere» (così si è espressa testualmente Cass. pen., sez. II, n. 29869 del 23/6/2016; sez. II, n. 52645 del 20/11/2014).
In tale ipotesi, dunque, il delitto di riciclaggio si atteggia a reato permanente (così, sul punto, Cass. pen., sez. II, n. 29611 del 27/4/2016) e, conseguentemente, deve considerarsi consumato con il compimento dell’ultimo della sequenza di atti incriminata. Nel caso concreto, tale ultimo atto è stato individuato nell’atto di donazione del 14 settembre 2015, con la duplice conseguenza che il reato non è stato considerato prescritto.
Da qui il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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