La giurisprudenza delimita la rilevanza penale. Prova del nesso causale quasi diabolica
Le condotte omissive riducono le ipotesi delittuose
Pagina a cura di Stefano Loconte e Giulia Maria Mentasti

Nessuna condanna per epidemia colposa a titolo di omissione, ovvero per non aver contenuto il contagio: sulla scorta dell’orientamento della giurisprudenza di legittimità sull’applicabilità di questo grave reato, l’art. 438 c.p., con la locuzione «mediante la diffusione di germi patogeni», richiede una condotta commissiva.
Il non essersi attivati tempestivamente e adeguatamente potrebbe al più rilevare per altri reati, quali lesioni e omicidio colposo, ma ecco che si pone un problema, ulteriore, di accertamento del nesso causale, onere probatorio «quasi diabolico»: come fare, in molti casi, a dimostrare quando il soggetto ha contratto il virus e da chi?
Rilievi che rendono arduo il lavoro delle procure che stanno indagando per il reato di epidemia colposa, con particolare riferimento alla gestione dell’emergenza in ospedali e case di riposo, nonché alla mancata adozione dei presidi e delle misure necessarie per impedire la diffusione del contagio.

Le indagini avviate. Secondo le notizie delle ultime settimane, più procure hanno avviato inchieste sui poli ospedalieri, con particolare riferimento alla gestione dei malati risultati positivi al coronavirus, nonché aperto fascicoli sui decessi registratisi in case di riposo, poiché la media decisamente alta rispetto al normale trend di morti potrebbe far propendere per uno stretto legame con il contagio da Covid-19.
La contestazione è quella di cui all’art. 452 c.p., che sotto la rubrica «Delitti colposi contro la salute pubblica» punisce chiunque commette per colpa il reato di cui all’art. 438 c.p., ossia il reato di epidemia mediante la diffusione di germi patogeni. La pena è della reclusione da uno a cinque anni, ma se dal fatto deriva la morte di più persone, il carcere sale da un minimo di tre fino a un massimo di dodici anni.
Tuttavia, l’applicabilità della norma ai casi concreti non pare così pacifica.

L’epidemia penalmente rilevante. La nozione di epidemia codicisticamente rilevante è infatti più ristretta della qualificazione accolta in ambito sanitario, così che la possibilità di raggruppare plurimi casi di infezione collegati tra loro in una determinata area geografica e in un certo periodo, pur essendo descrittiva sul piano della scienza medica del fenomeno del contagio, non equivale al concetto di epidemia così come inteso dalla giurisprudenza di legittimità. È stata la Suprema corte riunita nel suo massimo consesso a chiarire che esso si connota per diffusività incontrollabile all’interno di un numero rilevante di soggetti e quindi per una malattia contagiosa dal rapido e autonomo sviluppo entro un numero indeterminato di persone, per una durata cronologicamente limitata. (Cass. Sez. Un., sent. n. 576 dell’11 gennaio 2008).
Quindi, laddove il fenomeno sia quantitativamente circoscritto, non si avrebbe epidemia nel senso a essa attribuito dalla legge, così come, se non si può escludere automaticamente che la nozione di diffusione possa includere il contatto fisico tra agente e vittima, secondo la sopraccitata interpretazione, determinante è l’intervallo temporale entro cui si verifica il contagio, e la facile trasmissibilità della malattia a una cerchia di persone ancora più ampia.

L’irrilevanza delle condotte omissive. La situazione sinora descritta attiene peraltro al caso della propagazione colpevole da parte di soggetto che, portatore di un virus potenzialmente trasmissibile, intrattenga rapporti con altre persone; ben diversa rispetto a quella, di tipo omissivo, che si potrebbe contestare per esempio a un sanitario, o all’operatore di una casa di riposo o riabilitativa, o ancora ai vertici delle strutture ospedaliere e assistenziali per le determinazioni assunte, laddove non abbiano adottato la dovuta diligenza, prudenza o perizia.
Gli interpreti hanno nel tempo tentato di rendere la norma compatibile con la previsione di cui all’art. 40 comma 2 c.p., ovvero con il disposto per cui, testualmente, impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo. Tuttavia, la giurisprudenza si è espressa negativamente circa la percorribilità di questo indirizzo ermeneutico: la Cassazione ha infatti precisato che la responsabilità per il reato di epidemia colposa non è configurabile a titolo di omissione, in quanto l’art. 438 c.p., con la locuzione «mediante la diffusione di germi patogeni», richiede una condotta commissiva a forma vincolata, incompatibile con il disposto dell’art. 40, comma 2, c.p., riferibile esclusivamente alle fattispecie a forma libera. (Cassazione penale, sez. IV, 12/12/2018, n. 9133).

Altre ipotesi di reato. Alla luce di tali considerazioni, la responsabilità penale del medico o del professionista che, chiamato a gestire l’emergenza, aveva l’obbligo giuridico di impedire l’evento-contagio e non si è immediatamente attivato in tal senso (e dunque sia rimproverabile per colpa o imperizia) potrebbero al più rilevare in relazione ad altre ipotesi delittuose, quali quelle contro la vita o l’incolumità individuale.
Si pensi al reato di lesioni colpose gravi o gravissime (art. 590 c.p.) o addirittura alla contestazione di omicidio colposo nel caso in cui dal contagio derivi la morte dell’individuo (art. 589 c.p.).

Il nesso causale. Tuttavia, ancora, non va trascurata l’ulteriore difficoltà di accertamento del nesso di causalità tra la condotta contestata e i singoli episodi di contaminazione cui conseguono danni alla salute, lesioni e/o morte, che imporrà una pronuncia di proscioglimento ogniqualvolta, ipotesi non remota, rimanga incerta la ricostruzione del quadro probatorio relativo al collegamento tra la condotta di chi era chiamato a impedire il contagio e l’evento avverso di cui è rimasto vittima il paziente.
Come fare ad affermare con sicurezza che le persone contagiate fossero sane prima del momento «incriminato» o non abbiano contratto la patologia successivamente e in diverse circostanze fattuali?
Considerato che secondo la giurisprudenza il nesso causale può essere ravvisato solo quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica, universale o statistica, si accerti che, ipotizzandosi come realizzata la condotta doverosa impeditiva dell’evento, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva, l’accertamento eziologico appare oggettivamente «diabolico».
Questo non esclude che in futuro la magistratura, attraverso un’interpretazione estensiva del concetto di «diffusione», provi a sostenere la configurabilità del reato di epidemia anche laddove le condotte siano di tipo omissivo; tuttavia, sul piano del nesso causale, appare comunque che, almeno fino a quando l’avanzamento tecnologico e le risorse sanitarie non consentiranno di monitorare giorno per giorno lo stato di salute dei cittadini, il raggiungimento di tale prova in sede processuale si potrebbe tradurre nell’impossibilità di superare, all’esito della verifica controfattuale, l’oltre ogni ragionevole dubbio.
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