di Renato Giallombardo – Studio legale Gianni, Origoni, Grippo, Cappelli & Partners

La storia breve dei piani individuali di risparmio. Si potrebbe scrivere in quattro parole. Idea buona. Azione sbagliata. Nel 2016 si pensa che una parte delle risorse delle famiglie italiane possano essere investite nell’economia reale del Paese. Per agevolare la raccolta si defiscalizzano le plusvalenze, ma il principio chiave è il comma 106 della legge di bilancio. «Gli strumenti finanziari in cui è investito il piano devono essere detenuti per almeno cinque anni». Quindi i Pir investono in titoli che possono essere venduti dopo cinque anni. Altrimenti nessun beneficio. E cinque anni è esattamente il periodo medio di investimento, gestione ed exit in una società non quotata da parte di un fondo chiuso; un fondo di private equity, venture capital, debito, infrastrutture, ambiente ed energia. Appunto un fondo per l’economia reale.
Il Pir doveva essere lo strumento per generare rendimenti sicuri anche per piccoli investitori che danno una mano al Paese. Questa l’idea. Ma poi c’è l’azione. E allora la storia si complica. E le norme seguono un’altra via. La legge di stabilità 2017 stabilisce che, per due terzi dell’anno, almeno il 70% del piano debba essere investito in titoli «anche non negoziati nei mercati regolamentati», il 50% possa essere diretto verso imprese inserite nell’indice Ftse Mib della Borsa italiana o in indici equivalenti di altri mercati regolamentati internazionali dove sono quotate le società a maggiore capitalizzazione. E infine per completare l’azione, lato raccolta, si includono gli Ucits e non poteva essere altrimenti. Fondi aperti che devono investire almeno il 90% in titoli quotati. Un capolavoro per gli asset manager internazionali che porta a una raccolta di 23 miliardi di euro in due anni e commissioni per oltre 400 milioni di euro.

Di investimenti in imprese non quotate si perdono le tracce, mentre parte la corsa a quotarsi all’Aim. Quotazioni affrettate e in ordine sparso: 36 sono le imprese che si quotano in meno di 24 mesi con un valore di collocamento medio di 10 milioni di euro. Totale: 450 milioni in tutto. Conseguenze: rendimenti negativi medi del -15% nel 2018, miliardi volati all’estero e un impatto sull’economia non quotata pari a zero. Un disastro prevedibile? Forse, non in queste proporzioni, ma certamente ciò che non doveva accadere era il «cambio di programma». Deviare l’idea (buona) di un investimento a lungo termine in Pmi in un’azione (sbagliata) con norme che hanno dirottato le risorse delle famiglie verso investimenti liquidi e in larghissima prevalenza su borse internazionali.
E come poteva non finire così. La Borsa italiana capitalizza poco più di 500 miliardi di dollari contro i 22 mila miliardi di Toronto e Francoforte, i 44 mila di Londra e Hong Kong e gli oltre 200 mila miliardi delle due Borse di New York. La Borsa di Milano è la prima tra le Pmi italiane e viene sistematicamente usata come esca in favore dei mercati finanziari internazionali. E allora la politica cosa fa? Si adegua. Poi nel 2018 cambia il governo, che con l’ultima legge di bilancio prova a sterzare. Stabilisce che i «nuovi Pir» dovranno investire almeno il 3,5% del patrimonio in fondi italiani di venture capital e un altro 3,5% in azioni di piccole e medie imprese, imprese con meno di 250 dipendenti e 50 milioni di ricavi. E parte il caos.
Perché i nostri 23 miliardi di euro sono volati all’estero? Le regole, le tecniche e le ragioni per trattenere gran parte delle risorse sul nostro territorio ci sono. Si chiamano fondi chiusi (e non aperti), si chiamano fondi di fondi, si chiamano fondi per le Pmi e per il growth capital. Si chiamano Eltif (forse, ma siamo sempre al compromesso con l’estero). Si chiamano investimenti in economia reale. Parlare di nanismo e poi comprare un biglietto di prima classe per far viaggiare i nostri capitali non è una buona idea. Agire per mantenerli nel Paese è una buona azione. Ci sono passaggi di un Paese che cambiano la storia di un popolo. Ci sono scelte di un popolo che cambiano la storia di un Paese. Non è un iperbole è quello che dovrebbe accadere con l’aiuto di tutti. (riproduzione riservata)

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