di Alberto Brambilla*

Con i provvedimenti adottati tra il 2004 e il 2010, il lungo ciclo di revisione del sistema pensionistico sembrava concluso, ma la riforma Monti–Fornero del 2011 ha rimesso tutto in discussione. Sarebbero bastate poche cose come l’introduzione pro-rata del metodo contributivo per tutti e un minimo di flessibilità nei requisiti utili per andare in pensione, ma l’eccessiva pressione esterna, frutto anche dei dati fuorvianti forniti dall’Istat, ha prodotto una riforma «dura», caratterizzata da un eccessivo incremento delle età di pensionamento (uno «scalone» in alcuni casi di 6 anni) e un sistema troppo rigido che ha scatenato da subito forti tensioni costringendo i vari governi a risposte diverse ma sempre «in deroga» ai limiti fissati dalla legge Monti-Fornero.

Otto «salvaguardie» e gli altri

A chi oggi contesta quota 100, il provvedimento realizzato dall’attuale governo che pure presenta indubbiamente molte criticità, forse un «ripasso» di quanto avvenuto negli ultimi 8 anni potrebbe essere di qualche utilità. Il primo «assalto» al sistema, la prima «salvaguardia», così sono state chiamate le norme per consentire il pensionamento con i requisiti pre-Fornero, è partita proprio con la riforma stessa; nel 2012 la seconda, e così via fino alla ottava nel 2016. In totale i salvaguardati sono stati 120 mila a fronte di un’ipotesi iniziale di oltre 200 mila lavoratori. Inoltre, tra il 2014 e il 2016 la proroga di «opzione donna» (pensione totalmente contributiva a 57 anni di età anagrafica — un anno in più per le lavoratrici autonome — e 35 di contributi) ha permesso l’andata in pensione a oltre 45 mila donne.

La vera anomalia è che, pur rendendosi conto dell’eccessiva rigidità del sistema (o si ha 67 anni di età anagrafica o 42 anni e 10 mesi di anzianità contributiva — un anno in meno per le donne — o non si va in pensione) tre governi (Monti, Letta e Renzi) non hanno avuto il coraggio di rivedere la riforma, limitandosi italianamente a fare deroghe. Lo stesso è successo con Renzi prima e Gentiloni poi nel 2017 e 2018 che non potendo fare una nona salvaguardia hanno introdotto l’Ape (anticipo pensionistico), i lavori gravosi e i «precoci», rendendo ancora più complicato il sistema. Risultato: tra il 2017 e il 2018 i beneficiari dell’Ape sociale (a totale carico dello Stato) che sono andati in pensione con 63 anni di età anagrafica e 30 o 36 anni di contribuzione (diremmo oggi, quota 93 o 99) sono stati 97 mila; i precoci (con 41 anni di contribuzione, indipendentemente dall’età anagrafica, quindi molti sotto quota 100) sono stati 74.500.

Conclusione: in 7 anni i soggetti che sono andati in pensione senza i requisiti Fornero sono stati oltre 340 mila, per un costo che si può stimare in circa 30 miliardi (solo le 8 salvaguardie sono costate, secondo le stime dell’Inps, circa 17 miliardi cioè il 15% dei risparmi previsti dalla riforma Fornero).

Quota 100

Cambia il governo ma non cambiano i metodi e così la Legge di bilancio per il 2019 e il successivo decreto legge (29/1/19 n. 4), recentemente convertito, hanno introdotto la quota 100 (62 anni di età e 38 di contributi), le pensioni anticipate (42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne, anziché 5 mesi in più) e prorogato opzione donna, precoci e Ape sociale. In poco più di 2 mesi (dal 29 gennaio scorso al 5 aprile) le richieste sono state le seguenti: a quota 100 hanno aderito 112 mila lavoratori; a opzione donna 11 mila lavoratrici; alle anticipate 45 mila unità; all’Ape sociale oltre 9 mila e all’opzione precoci 11.500 soggetti. Per un totale di circa 190 mila persone. Insomma gli «scampati» alla legge Fornero in poco più di 7 anni sono stati ben 530 mila su un totale di 16 milioni di pensionati; a questi dovremmo aggiungere gli invalidi e inabili.

Fra 3 anni ricominciamo

Si poteva fare meglio? Certamente sì, con una revisione definitiva. E la risposta vale per tutti i governi, Monti compreso. Si potevano introdurre alcune flessibilità: ad esempio, un’età di accesso alla pensione con 64 anni di età e 36 di contributi e il blocco (che ora è solo per 6 anni) dell’adeguamento della anzianità anagrafica all’aspettativa di vita, fissandola a poco più di 42 anni per gli uomini e 41 per le donne con sconti per i lavoratori precoci (quelli che hanno iniziato a lavorare prima dei 19 anni di età) e per le donne madri (fino a 24 mesi di anticipo). Il tutto con non più di 3 anni figurativi e il ricalcolo a contributivo per i periodi dal 1° gennaio ‘96 (riforma Dini) al 31 dicembre 2011 (Riforma Fornero).

Anziché Ape e altri strumenti si sarebbero potuti utilizzare i fondi esubero che sono già operativi per le banche e assicurazioni, a costo zero per lo Stato. I numeri sarebbero stati inferiori e così pure il costo per la collettività; ma soprattutto si sarebbe fatta equità intergenerazionale. Invece ci troveremo tra soli 3 anni a «inventarci» un altro escamotage per aggirare la riforma Fornero senza procedere a una sua definitiva sistemazione e nel contempo spenderemo altri 30 miliardi che si andranno a sommare ai precedenti, riducendo del 60% i risparmi previsti dalla Fornero.

*Presidente Centro studi Itinerari Previdenziali

 
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