La Cassazione: il datore di lavoro deve provare il rispetto del Testo unico sicurezza
Ristoro del danno biologico se è pregiudicata la salute
Pagina a cura di Daniele Bonaddio

Costa cara l’inosservanza delle nome in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Infatti, se il datore di lavoro non prova di aver messo in atto tutte le disposizioni legislative previste dal precetto normativo di cui all’art. 2087 c.c. e del T.u. Salute e Sicurezza (dlgs 81/2008), scatta il risarcimento del danno biologico subito dal lavoratore, qualora egli sia stato adibito a mansioni incompatibili con le proprie condizioni fisiche. Dunque, al fine di tutelare adeguatamente la salute e la sicurezza dei lavoratori, al datore di lavoro non basta disporre misure di protezione, ma risulta fondamentale mettere in atto azioni di prevenzione, che devono necessariamente essere commisurate alla realtà aziendale e alle mansioni svolte dal dipendente, tenuto conto anche delle prescrizioni mediche. Attenzione però: affinché si realizzi il risarcimento del danno patito, il lavoratore non deve provare la colpa del datore di lavoro per non aver ottemperato alle norme di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, ma deve esclusivamente allegare e dimostrare l’esistenza dell’obbligazione lavorativa, del danno e il nesso causale di questo con la prestazione. A stabilirlo è la Corte di cassazione con l’ordinanza n. 7584 del 18 febbraio 2019.

La vicenda. Il caso affrontato dalla Suprema Corte riguardava il risarcimento danni richiesto da un dipendente al datore di lavoro, reo di aver aggravato le condizioni di salute del lavoratore stesso. Infatti, per effetto delle mansioni svolte, e in particolare del mantenimento della posizione eretta, il dipendente aveva subito un aggravamento della patologia a carico del ginocchio destro e del disturbo dell’adattamento.
In primo grado, il giudice aveva accolto parzialmente la domanda del lavoratore, condannando la società al pagamento a titolo di risarcimento del danno biologico, della somma di euro 17.335,50 oltre accessori di legge. Inoltre era stato accertato che le assenze per malattia del lavoratore, avvenute nel periodo «dicembre 2005 e dicembre 2009», non potevano concorrere al computo del periodo di comporto nella misura di 144 giorni, che quindi andavano detratte per il calcolo dello stesso periodo.
Corte d’appello. La società aveva impugnato la pronuncia del giudice del lavoro locale e fatto ricorso alla Corte d’appello. I giudici torinesi avevano dato nuovamente ragione al lavoratore. Secondo questi ultimi, l’importo riconosciuto a titolo di danno biologico da incapacità temporanea, risultava in linea con le c.d. «tabelle milanesi», avendo ritenuto la società responsabile ex art. 2087 c.c. dell’aggravamento delle condizioni di salute del ricorrente.

I giudici evidenziavano come la società abbia disatteso le prescrizioni prima del medico competente poi dalla commissione medica, in quanto l’interessato era stato adibito dall’azienda a mansioni alle quali era stato giudicato «non idoneo». Infatti, alla luce delle patologie sofferte a carico degli arti inferiori, il collegio medico aveva giudicato il dipendente non idoneo per 12 mesi alle mansioni di portalettere, ma «idoneo a mansioni interne non comportanti stazione eretta prolungata o deambulazione protratta».
Quindi tali prescrizioni indicavano la necessità di adibire al dipendente non solo a mansioni interne di ufficio, ma soprattutto a mansioni che gli consentissero di restare seduto per la gran parte del tempo lavorativo e che non comportassero dunque, se non in via del tutto occasionale e per un tempo assai limitato, la posizione eretta e la movimentazione degli arti. Tuttavia, le mansioni effettivamente svolte dal lavoratore consistevano anche nel mantenimento della stazione eretta, frequenti spostamenti ed un sovraccarico agli arti inferiori, motivi per i quali l’interessato aveva subito un notevole aggravamento della stato di salute.
La società decideva comunque di impugnare la sentenza di secondo grado e di ricorrere alla Corte di cassazione, sostenendo (citando le sentenze nn. 6018/2000 e 3785/2009 della Suprema corte) che dal dovere generale di prevenzione, stabilito dall’art. 2087 c.c., non possa desumersi la prescrizione di un obbligo assoluto di rispettare ogni cautela possibile e non specificata, diretta a evitare qualsiasi danno. Pertanto, non poteva essere invocata la responsabilità datoriale ogni qualvolta si verifichi un danno alla salute del lavoratore.
La sentenza. I giudici della Suprema corte rigettano il ricorso proposto dalla società. Secondo gli Ermellini la mancata corretta e compiuta ottemperanza alle apposte prescrizioni mediche, comunque evidentemente a conoscenza di parte datoriale (che non risulta averla mai univocamente negata), comporta la colposa inadempienza degli obblighi contrattuali derivanti dal categorico precetto normativo di cui all’art. 2087 c.c. Ciò comporta responsabilità risarcitorie in difetto di adeguata prova liberatoria ex art. 1218 c.c. da parte datoriale.
Dunque, per evitare la responsabilità risarcitoria, il datore di lavoro deve provare di aver adottato tutte le misure possibili per evitare il danno: non è sufficiente quindi provare l’adozione solo parziale di cautele, quali le misure di protezione.

La responsabilità del datore di lavoro nei confronti del dipendente è difatti contrattuale, diversa dalla responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2043 c.c., derivante da qualunque fatto doloso o colposo, che cagioni ad altri un danno ingiusto.
Pertanto, se il datore di lavoro non prova di aver ottemperato a tutti gli obblighi previsti dal dlgs n. 81/2008, e il lavoratore, al contrario, prova invece di aver subito un’alterazione dell’integrità psicofisica, il giudice non può che confermare il risarcimento del danno.
Giurisprudenza di merito. In tema di responsabilità per violazione delle disposizioni dell’art. 2087 c.c., la giurisprudenza di merito si è più volte espressa, stabilendo che la parte la quale subisce l’inadempimento non deve dimostrare la colpa dell’altra parte, poiché è il datore di lavoro a dover provare che l’impossibilità della prestazione o la non esatta esecuzione della stessa o comunque il pregiudizio che colpisce la controparte derivano da causa a lui non imputabile (Cass. 11 aprile 2013, sentenza n. 8855).
In definitiva, se da una parte il lavoratore deve allegare e provare l’esistenza dell’obbligazione lavorativa, del danno e il nesso causale di questo con la prestazione, dall’altra, il datore di lavoro deve provare che il danno è dipeso da causa a lui non imputabile e cioè di avere adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno (Cass. 14 aprile 2008, sentenza n. 9817).
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