I genitori, per superare la presunzione di colpa prevista dall’art. 2045 c.c., debbono fornire non la prova legislativamente predeterminata di non aver potuto impedire il fatto (atteso che si tratta di prova negativa), ma quella positiva di aver impartito al figlio una buona educazione e di aver esercitato su di lui una vigilanza adeguata, il tutto in conformità alle condizioni sociali, familiari, all’età, al carattere e all’indole del minore.

L’inadeguatezza dell’educazione impartita e della vigilanza esercitata su un minore, fondamento della responsabilità dei genitori per il fatto illecito dal suddetto commesso, può essere desunta, in mancanza di prova contraria, dalle modalità dello stesso fatto illecito, che ben possono rivelare il grado di maturità e di educazione del minore, conseguenti al mancato adempimento dei doveri incombenti sui genitori, ai sensi dell’art. 147 cod. civ.

In sostanza, la gravità della condotta del minore è, di per sé, sintomo del mancato raggiungimento della prova liberatoria di cui all’ultimo comma della disposizione citata.

Si devono, quindi, identificare i danni risarcibili.

Parte attrice ha chiesto il risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non.

Tuttavia, come evidenziato dalla giurisprudenza più recente, si dovranno prendere in considerazione unicamente quei danni per i quali sussistano specifiche allegazioni e prove.
Il risarcimento del danno non patrimoniale è stato oggetto delle sentenze gemelle delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione rese in data 11.11.2008 (nn. 26972, 26973, 26974 e 26975). Affrontando un annoso nodo interpretativo, la Suprema Corte ha chiarito che il danno non patrimoniale è categoria generale non suscettibile di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate.

In altre parole, non è possibile duplicare le voci risarcitorie ripartendo la nozione di danno non patrimoniale in sottocategorie quali il danno biologico, il danno morale soggettivo, il danno esistenziale, il danno alla vita di relazione ecc. Infatti, al danno biologico va riconosciuta portata tendenzialmente onnicomprensiva.

Tali denominazioni, ancora in uso presso la giurisprudenza, hanno la valenza di mere sintesi descrittive di specifiche situazioni dannose tutte ricomprese nella generale categoria del danno non patrimoniale.

E’, pertanto, compito del giudice, nel singolo caso concreto, liquidare un’unica voce di danno non patrimoniale, individuata e ponderata in modo tale da ricomprendervi unitariamente tutti i pregiudizi risarcibili, purché oggetto di specifica allegazione e di idonei riscontri probatori forniti dall’interessato, tenendo altresì conto del limite imposto dall’art 2059 c.c. costituzionalmente interpretato, il quale impone di considerare a fini risarcitori solo quei pregiudizi si traducano nella lesione di un interesse della persona costituzionalmente rilevante (con esclusione dei danni c.d. bagatellari), ovvero espressamente considerati da specifiche norme di legge primaria.

Quanto alle sofferenze patite in conseguenza dell’illecito, danno morale, questo continua a essere risarcito e non è affatto scomparso, come è stato frettolosamente sostenuto dopo le sentenze di San Martino.

Questo, infatti, consiste in un pregiudizio ad un valore costituzionale che va dunque risarcito.

In sostanza, lo stesso illecito produce la lesione sia del bene salute di cui all’art. 32 Cost. che dell’integrità morale di una persona ex art. 2 Cost.

Tali lesioni, quindi, rappresentano entrambe sottocategorie di un unico danno, convenzionalmente chiamato danno non patrimoniale, che costituisce la somma del vecchio danno morale e biologico.

L’unica distinzione tra danni dotata di autonomo rilievo è quella tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale.

La liquidazione del danno non patrimoniale deve essere necessariamente equitativa, stante dell’impossibilità o estrema difficoltà di prova nel suo preciso ammontare.

Nel risarcire il danno subito, il Giudice deve determinare la compensazione economica socialmente adeguata del pregiudizio, quella che l’ambiente sociale accetta come compensazione equa.

La giurisprudenza ha precisato che, quando manchino criteri stabiliti dalla legge, come nel caso di specie, l’adozione della regola equitativa di cui all’art. 1226 c. c. deve garantire non solo una adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, essendo intollerabile e non rispondente ad equità che danni identici possano essere liquidati in misura diversa sol perché esaminati da differenti Uffici giudiziari. L’uniformità di trattamento viene garantita dal criterio di liquidazione predisposto dal Tribunale di Milano, secondo quanto indicato dalla stessa Corte di Cassazione.

Le tabelle del Tribunale di Milano, alla luce dei principi sopra espressi, determinano la somma da liquidare avendo riguardo non solo al cd danno biologico in senso stretto (inteso quale mera lesione dell’integrità psicofisica della persona suscettibile di valutazione medico legale – cfr. artt. 138 e 139 d.lgs. 209/2005, indicata dal bareme medico legale), ma, altresì, alle sofferenze patite ed a tutti i pregiudizi di natura dinamico -relazionale subiti dal danneggiato ed ordinariamente connessi, secondo una prognosi di normalità, al grado delle lesioni riportate.

Il bareme usato dalla medicina legale indica il complesso delle privazioni che la vittima dovrà subire nella vita quotidiana, lavorativa e sociale per effetto della menomazione e che, per convenzione, viene misurato in misura percentuale, ipotizzando per fictio iuris che sia pari a 100 la validità d’una persona sana, dello stesso sesso e della stessa età della vittima.

A tale diminuzione della capacità della persona le tabelle di Milano ricollegano un certo importo risarcitorio standard, inteso a ristorare la perdita delle attività che normalmente quella menomazione comporta per la vittima.

A questo punto, il Giudice deve personalizzare la liquidazione del danno non patrimoniale.

In particolare, il giudice di merito deve:

  • liquidare il danno alla salute applicando un criterio standard ed uguale per tutti, che consenta di garantire la parità di trattamento a parità di danno
  • variare adeguatamente, in più od in meno, il valore risultante dall’applicazione del criterio standard, al fine di adeguare il risarcimento alle specificità del caso concreto (c.d. personalizzazione del risarcimento).

L’una e l’altra di tali operazioni vanno compiute senza automatismi risarcitori e soprattutto sulla base di adeguata motivazione che spieghi:

–          quali pregiudizi sono stati accertati

–          con quali criteri sono stati monetizzati

–          con quali criteri il risarcimento è stato personalizzato.

In sostanza, l’aumento delle voci di danno e del quantum che può essere concesso al danneggiato sarà possibile solo con l’allegazione e la prova di quelle specifiche conseguenze indicate nell’atto di citazione, rispetto alle quali il sistema tabellare – per come è costruito – non potrebbe essere in grado di offrire una adeguata riparazione, in quanto superiori a quelle ordinariamente riconducibili a quel tipo di lesione.

Si deve trattare, cioè, di circostanze anomali ed eccezionali rispetto alla normalità dei casi, già considerata dalle tabelle milanesi.

Si deve, però, valutare se, in tale vicenda, parte attrice ha subito una sofferenza superiore rispetto a quella indefettibilmente collegata a quel tipo di lesione o se queste siano già comprese tra i pregiudizi patiti dalla vittima espressi dal bareme medico legale o meno.

Parte attrice ha sostenuto che, in conseguenza della vicenda per cui è causa, ha manifestato disagio e vergogna all’interno della scuola, mentre ha provato paura, sgomento e rabbia.

Per entrambi, i relativi stati d’animo sono degenerati in una patologia, accertabile in sede medico legale.

Da questo punto di vista, il dolore fisico a base organica rientra nel dominio della medicina legale, e va, perciò, necessariamente ricompreso nella determinazione del grado di invalidità, e risarcito attraverso la monetizzazione di quest’ultima.

Ciò comporta che l’allegazione di tale pregiudizio non giustifica, normalmente, alcuna esigenza di personalizzazione della liquidazione del danno.

Discorso diverso vale per la sofferenza emotiva (come, ad es., lo spavento, l’ansia e la preoccupazione causate dalle proprie condizioni di salute, la perduta stima, considerazione o compiacimento di sé) che non è medico-legalmente obiettivabile.

A ciò deve aggiungersi che la giurisprudenza afferma che la gravità del fatto non è irrilevante ai fini della quantificazione del danno alla persona, ma assume rilievo non in un’ottica punitiva, bensì nella misura in cui essa abbia determinato una maggiore sofferenza nel danneggiato.

In sostanza, per la giurisprudenza maggioritaria, la gravità della condotta può assumere rilevanza indiretta nella misura in cui abbia aggravato le conseguenze dell’illecito.

Tribunale Savona, 22/01/2018 n. 79