La mini-ripresa dell’inflazione di inizio anno ha fatto salire il rendimento del Tfr in azienda, che nel trimestre si è rivalutato dello 0,75%. I fondi negoziali hanno fatto lo 0,77% e quelli aperti lo 0,79%. I migliori? I comparti azionari

di Paola Valentini

I fondi pensione battono, seppur di misura, il trattamento di fine rapporto (Tfr). Dall’analisi di MF-Milano Finanza, che ha raccolto un’anticipazione dei risultati della gestione dei fondi pensione negoziali operativi in Italia (un campione che copre oltre l’80% del mercato), emerge che nel primo trimestre 2017 il rendimento medio netto dei comparti di categoria si è attestato allo 0,77%, mentre il Tfr in azienda ha reso nel periodo lo 0,75% netto (la liquidazione si rivaluta dell’1,5% fisso annuo più il 75% dell’indice di inflazione Istat). C’è anche da ricordare che mentre sul Tfr l’aliquota fiscale dei rendimenti è del 17%, per i fondi pensione è del 20%.

Fatto sta che una mano al Tfr l’ha data soprattutto la ripresa dell’inflazione. Il caro vita in questa prima parte dell’anno sembra aver rialzato la testa dopo mesi in calo, facendo alzare la tradizionale asticella con cui si confrontano i fondi pensione. Anche i fondi aperti sono riusciti a superare di un soffio il Tfr. Nel trimestre il rendimento medio dei circa 300 comparti sul mercato è stato dello 0,79% (dati Fida). Ma in entrambi i casi non manca chi è riuscito a ottenere rendimenti superiori al 2%. E le linee migliori sono state quelle a maggior contenuto azionario, che hanno cavalcato quello che si è rivelato un buon trimestre per le borse.

Al contrario hanno sofferto i comparti più esposti ai bond, che hanno realizzato in generale performance poco brillanti per via dell’andamento dei tassi. Tra i fondi aperti, per esempio, spicca l’azionario Bim Vita Equity che ha reso il 6,2%, seguito dal comparto Hdi Azione di Previdenza Linea Dinamica (4,95%) e da Zed Omni Fund Linea Azionaria (4,2%). Passando ai negoziali si mette in evidenza il comparto Prevalentemente azionario di Fopen, il fondo pensione dei dipendenti del gruppo Enel , con un +2,77% (in questo caso i dati sono al 15 marzo). Proprio in questi giorni Fopen (che ha masse totali pari a circa 2 miliardi di euro) ha lanciato il bando per scegliere i nuovi money manager cui affidare i mandati di gestione per i prossimi anni. Tallonano Fopen il comparto Dinamico di Fon.Te (2,64%) e la linea Dinamica di Laborfonds (2,59%). All’opposto, in fondo alla classifica sia dei fondi aperti che dei negoziali si piazzano le linee obbligazionarie e garantite, con rendimenti finiti in qualche caso anche in territorio negativo (nel caso dei garantiti c’è comunque la sicurezza del capitale). Una situazione destinata a durare visto che nei bond ormai si fa sempre più fatica a estrarre rendimenti dati i tassi ai minimi. E ciò complicherà sempre più la vita ai gestori previdenziali che, non a caso, hanno iniziato a diversificare con nuove strategie alternative.

Prova a dare una chiave di lettura dell’andamento del trimestre Nicola Barbiero, della funzione finanza di Solidarietà Veneto (il fondo pensione dedicato ai lavoratori dipendenti attivi nel territorio del Veneto): «Gli asset azionari hanno aperto l’anno in modo positivo, influendo positivamente sulla performance. Per la parte obbligazionaria, invece, si registra una situazione quasi opposta. Nel primo mese dell’anno i governativi, in modo particolare quelli italiani, hanno visto diminuire il loro valore, influenzati dal leggero aumento dei tassi e dal nuovo allargamento dello spread dovuto anche alle incertezze sugli eventi politici in agenda. Nei successivi due mesi, anche a seguito della conferma della politica accomodante di Draghi, i titoli di stato hanno invertito la rotta, recuperando parte del valore lasciato sul terreno a gennaio». Uno scenario che comunque è nettamente diverso dal 2016, un anno funestato da una forte volatilità. Anche nel 2016 , in ogni caso, i rendimenti netti dei fondi pensione sono stati in media positivi e hanno superato il Tfr: i negoziali e i fondi aperti hanno reso in media, rispettivamente, il 2,7% il 2,2%, mentre per i piani individuali pensionistici (ramo III) il rendimento medio è stato del 3,6%. Medie dietro le quali si nascondono però risultati diversi per singolo prodotto.

Per avere l’estratto conto con i risultati 2016 dei propri fondi gli iscritti quest’anno dovranno però aspettare due mesi in più. Questo perché la Covip ha posticipato dal 31 marzo al 31 maggio la data entro la quale di solito i fondi devono inviare i rendiconti per l’attività dello scorso anno ai propri iscritti. Lo slittamento si è reso necessario per dare più tempo ai fondi di modificare questi documenti secondo le nuove disposizioni richieste proprio dalla stessa commissione di vigilanza presieduta da Mario Padula in un’ottica di maggiore trasparenza verso gli iscritti. In particolare verrà cambiato il prospetto esemplificativo personalizzato, che prenderà il nome di «La mia pensione complementare», il documento che fornisce la proiezione della futura pensione complementare che l’aderente può attendersi in base al livello della posizione previdenziale di partenza, agli anni al pensionamento, al comparto scelto e ai versamenti effettuati e prospettici. La stima della rendita integrativa è stata ribattezzata in analogia a «La Mia Pensione» dell’Inps meglio nota come busta arancione, ovvero il servizio dell’istituto di previdenza pubblica che offre la stima della pensione di primo pilastro attesa. L’esperimento dell’invio delle prime buste arancioni cartacee dell’Inps è partito un anno fa e molti lavoratori hanno toccato con mano che l’importo delle pensioni e l’età di addio al lavoro sono ben diversi da quella delle generazioni già in pensione.

Da qui la necessità di integrare l’assegno pubblico, che con il metodo di calcolo contributivo è legato a doppio filo all’andamento del pil dell’Italia e alla propria carriera. A questo proposito le adesioni ai fondi pensione continuano ad aumentare, ma a un passo che resta ancora lento. Nel 2016, stando ai dati Covip, gli iscritti sono saliti del 7,7% a quota 7,7 milioni. Una buona notizia per i gestori previdenziali che continuano a vedere crescere le proprie masse, salite a quasi 150 miliardi di euro, anche se restano comunque basse rispetto alla media degli altri Paesi europei e alla percentuale sul Pil, ferma al 10%. La strada è infatti ancora lunga per arrivare a una completa copertura dei lavoratori italiani, che sono circa 22 milioni.
Le note dolenti arrivano soprattutto per i più giovani, i cosiddetti Millennials, ovvero la generazione dei nati tra il 1980 e il 2000. A lanciare l’allarme è Assoprevidenza, secondo cui tra emergenza demografica e prospettive economiche incerte neppure la previdenza complementare potrà bastare per i trentenni di oggi.

«In assenza di interventi che contrastino il calo demografico e le forti incertezze occupazionali, la previdenza complementare tradizionalmente intesa non basterà per garantire ai più giovani una vecchiaia decorosa», ha sottolineato il presidente di Assoprevidenza Sergio Corbello in un convegno che si è tenuto nei giorni scorsi proprio sul welfare dei Millennials. Il mercato del lavoro resta il problema primario: «La disoccupazione, combinata con gli effetti della non continuità di impiego che caratterizza soprattutto il lavoro giovanile, ha pesanti ricadute sul welfare, a cominciare dalla pensione di base, perché si riducono progressivamente gli apporti contributivi», ha osservato Corbello. Il presidente dell’Inps, Tito Boeri, intervenuto alla stessa tavola rotonda, ha definito la situazione dei Millenials, schiacciati tra mancanza di lavoro e precarietà, il «problema del Paese». Boeri ha dato una serie di dati definiti «impietosi»: la disoccupazione giovanile dal 2010/11 è aumentata del 50% mentre i salari di ingresso sono calati del 20%. In queste condizioni le generazioni degli anni Ottanta dovranno lavorare oltre i 70 anni per avere una pensione. «Abbiamo un milione di disoccupati con meno di 35 anni», ha sottolineato Boeri, «600 mila dei quali sono senza lavoro da oltre un anno e 250 mila sono laureati». La strada per rilanciare l’occupazione giovanile è la decontribuzione fiscale. «Il mercato del lavoro ha mostrato di reagire molto bene alla decontribuzione», ha proseguito Boeri, «e nel 2015 l’occupazione è cresciuta tre volte il Pil». Secondo Boeri con la fiscalizzazione dei contributi sociali per i giovani saranno gli attuali pensionati e lavoratori, la generazione che ha beneficiato di un trattamento pensionistico vantaggioso, a favorire l’ingresso nel mercato del lavoro dei giovani. Risorse importanti, ha detto ancora Boeri, si possono recuperare con interventi sulle pensioni oltre i 5 mila euro nonché ricalcolando col sistema contributivo i vitalizi. Bisogna cambiare le aspettative dei giovani, ha concluso, con interventi strutturali a loro vantaggio, non con interventi temporanei.

L’altra faccia della stessa medaglia è il progressivo invecchiamento della popolazione. Per Corbello la questione va affrontata rilanciando una proposta che Assoprevidenza porta avanti da anni, ovvero rendendo obbligatoria l’assicurazione cosiddetta Long Term Care, che interviene con un sostegno economico o con la fornitura di servizi in caso di perdita dell’autosufficienza. «L’obbligatorietà esalta la solidarietà intergenerazionale della copertura e ne rende assai contenuti i costi individuali», nota Corbello. Il problema è anche che la cultura assicurativa, in Italia, non ha mai trovato le adeguate premesse per svilupparsi in maniera importante. Come emerge dal nuovo Rapporto GfK su Sentiment e Risparmio delle famiglie Italiane, presentato al Salone del Risparmio 2017 di Assogestioni, se si va oltre la sfera dell’Rc auto la diffusione dei principali prodotti danni e vita non sembra essere particolarmente cresciuta nell’arco degli ultimi anni in termini di titolari. «Durante l’anno appena trascorso si è parlato molto, e alcune volte male, di scelte previdenziali e prodotti pensionistici. La visibilità è cresciuta e l’arrivo delle buste arancioni ha fatto il resto. Le famiglie italiane iniziano a prendere coscienza. Ma i dati ci dicono anche che a una presa di coscienza non corrisponde una maggior intenzione a ricorrere a prodotti previdenziali strutturati. A oggi le reazioni sono ancora home made: il ricorso ai propri risparmi o il rientro nel mondo lavorativo dopo il pensionamento laddove possibile», sottolinea Stefania Conti, Industry Lead Financial Services di Gfk. Per l’industria finanziaria l’opportunità è quella di colmare un vuoto, perché a oggi non esiste un’unica istituzione in grado di supportare le famiglie italiane nelle scelte previdenziali: «banche, compagnie e financial advisor sono i potenziali protagonisti per l’individuazione delle soluzioni più adeguate per i diversi target. Tante occasioni sono andate perse in questi 10 anni di crisi, in attesa di una domanda spontanea che non emerge. È tempo di maggiore iniziativa nel contatto e nella consulenza alle famiglie», conclude Conti. (riproduzione riservata)

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