di Stefania Peveraro
Nelle pieghe della manovrina di correzione dei conti pubblici, appena varata, è passato anche un concetto che allinea alle normative di molti altri Paesi occidentali il trattamento fiscale del cosiddetto carried interest, cioè la remunerazione corrisposta ai gestori dei fondi di investimento, tipicamente dei fondi chiusi di private equity, al momento del disinvestimento delle partecipazioni e che corrisponde in genere al 20% del capital gain ottenuto grazie all’operazione, mentre il restante 80% viene distribuito agli investitori del fondo. In sostanza, il carried interest verrà ora considerato come reddito di capitale, e quindi tassato con un’aliquota del 26%, e non più come reddito da lavoro tassato con l’aliquota marginale del 45% (in genere si tratta di redditi piuttosto elevati, su cui viene quindi applicata l’aliquota più elevata).

La norma, oltre a venire incontro ai gestori delle società di gestione del risparmio italiane, è stata introdotta anche per rendere fiscalmente attraente l’Italia agli occhi dei gestori dei fondi britannici, che in seguito alla Brexit si trovano a dover decidere in quale Stato membro dell’Unione Europea trasferire la sede della loro società di gestione se vogliono mantenere il passaporto europeo per i propri fondi. Non solo; la norma vale anche per i dipendenti e gli amminsitratori di società ed è stata studiata pensando in particolare anche alle start-up.

Il primo comma dell’articolo 60 del decreto 50 dello scorso 24 aprile, appena pubblicato in Gazzetta Ufficiale, recita infatti che «i proventi derivanti dalla partecipazione, diretta o indiretta, a società, enti o organismi di investimento collettivo del risparmio percepiti da dipendenti e amministratori di tali società, enti od organismi di investimento collettivo di risparmio ovvero di soggetti a essi legati da un rapporto diretto o indiretto di controllo o gestione, se relativi ad azioni, quote o altri strumenti finanziari aventi diritti patrimoniali rafforzati si considerano in ogni caso redditi di capitale o redditi diversi».

Questo trattamento fiscale però è valido soltanto se si verificano alcune condizioni. In primo luogo, l’investimento condotto dai soggetti interessati deve rappresentare almeno l’1% dell’investimento complessivo effettuato dal fondo, in linea con le prassi delle limited partnership anglosassoni, per cui si richiede ai gestori dei fondi di allineare i loro interessi con quelli degli investitori. D’altra parte, è proprio perché questi soggetti si trovano a rischiare denaro proprio che si è deciso di tassare il guadagno come capital gain e non più come reddito da capitale.

La seconda condizione è che i proventi così tassati maturino soltanto dopo che tutti i soci o i sottoscrittori del fondo abbiano percepito un ammontare pari al capitale investito e a un rendimento minimo previsto nello statuto. Di norma, infatti, il carried interest viene pagato soltanto una volta che gli investitori del fondo abbiano già incassato tante distribuzioni pari al capitale da loro sottoscritto e il rendimento minimo garantito (il cosiddetto hurdle rate, di solito pari all’8%).

La terza condizione perché scatti la tassazione come reddito da capitale, infine, è che i soggetti in questione abbiano mantenuto l’investimento in portafoglio per almeno cinque anni.
Fonte: logo_mf