di Sergio Corbello
Detassazione di quote del salario attribuito quale premio di risultato, riconosciuta necessità di riduzione generale della pressione fiscale, con particolare riguardo alle imprese, minore ostilità ideologica verso i redditi finanziari: con il consolidarsi di una pur non travolgente ripresa economica sembra essersi finalmente avviato anche in Italia un percorso virtuoso di revisione delle aree dalla tassazione particolarmente soffocante. In tale positivo contesto va posto subito all’ordine del giorno il tema della fiscalità dei risultati di gestione della previdenza complementare e delle casse professionali di primo pilastro, vero scandalo italiano.

Sul punto, diciamolo subito, il paradigma europeo è semplice, estrinsecandosi in «tassazione zero» o esenzione totale da prelievi fiscali. La motivazione dell’unanime scelta di politica tributaria dei partner dell’Unione attiene più a un elementare buon senso piuttosto che a sofisticati ragionamenti di scienza delle finanze: è infatti dovunque considerato assurdo tosare in fase di accumulo le forme previdenziali, sia per non inficiarne il ruolo (minori riserve accantonate determinano minori trattamenti pensionistici) sia per non depotenziarne quello, non secondario, di investitori istituzionali (minori risorse disponibili comportano ridotta capacità di investimento). In Italia la situazione non è mai stata rosea, anche prima del grossolano intervento attuato con la legge di Stabilità del 2015.

Ricordiamo che con la riforma del 2000 (dlgs 18 febbraio 2000, n. 47) il regime fiscale dei fondi di previdenza complementare era stato equiparato a quello dei fondi comuni di investimento. Come per i fondi comuni, anche per quelli di previdenza complementare si stabilì di calcolare anno per anno il risultato netto di gestione da assoggettare, per maturazione, a imposta sostitutiva (con aliquota ridotta dell’11% rispetto a quella ordinaria del 12,50% allora applicata ai fondi comuni). Trattandosi di una tassazione sostitutiva, operata anno per anno per maturazione, al momento dell’erogazione della prestazione pensionistica (in capitale o in rendita) la quota parte della prestazione già assoggettata a imposta è esente da ogni altro prelievo.

Anche il dlgs 5 dicembre 2005 n. 252 confermò detto regime, che è quindi tuttora vigente, salvo i recenti interventi incrementativi dell’aliquota dell’imposta sostitutiva: dall’11% all’11,5% e, da ultimo, al 20%. Ciò, nonostante che la tassazione per maturazione sui rendimenti finanziari dei fondi comuni di investimento sia stata sostituita, dal 2011 (!), a favore della tassazione per cassa. Oggi, pertanto, i fondi pensione sono gli unici soggetti gestori del risparmio collettivo che subiscono per maturazione un’imposta sostitutiva sui rendimenti. I fondi comuni d’investimento non sono più sottoposti ad alcun prelievo, anno per anno, sui rendimenti finanziari maturati, ma questi sono tassati per cassa in capo all’investitore solo al momento della loro erogazione o distribuzione. Si ha, dunque, un grave vulnus, che penalizza il risparmio previdenziale, il quale, anche costituzionalmente, dovrebbe ricevere un trattamento più favorevole rispetto al risparmio finanziario. Se, quindi, per ragioni di gettito, appare forse troppo coraggioso, sebbene più che legittimo, richiedere un’immediata equiparazione all’Europa (cioè nessuna tassazione sui rendimenti), chiedere di equiparare la base imponibile dei fondi pensione complementari a quella dei fondi comuni di investimento è davvero il minimo sindacale. In pratica, si tratterebbe di superare l’attuale disciplina contenuta nell’art. 17 del dlgs n. 252/2005 e di prevedere l’applicazione per cassa di una ritenuta/imposta sostitutiva sui rendimenti finanziari al momento di erogazione della prestazione pensionistica.

Non meno assurda appare la situazione delle casse professionali, che, a seguito degli ultimi richiamati interventi legislativi, subiscono un prelievo del 26% (prima era del 12,50%) sul risultato annuo, a cui si giustappone la tassazione piena delle prestazioni attribuite ai propri assistiti. Per le casse il «minimo sindacale» sarebbe un processo progressivo di riduzione dell’aliquota, a cui si potrebbe aggiungere, per esempio, una contrazione di aliquota progressiva per redditi che derivino da cespiti, di qualsiasi tipo, detenuti oltre un periodo minimo fissato dalla legge. Siffatto semplice accorgimento, da applicare anche ai fondi complementari, indurrebbe ancor più le casse, e i fondi, a compiere quegli investimenti di lungo periodo, in primo luogo infrastrutturali, che l’attuale disciplina in materia di credito d’imposta, barocca e mal formulata, cerca grossolanamente e assai poco efficacemente di promuovere. (riproduzione riservata)

* presidente, Assoprevidenza
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