di Stefania Peveraro

«Salvataggio delle banche italiane: che cosa sono 5 miliardi di euro tra amici? Non bastano nemmeno per il primo giro di aperitivi», dice Bernstein. «Il fondo Atlante offre supporto alle banche italiane, ma c’è una spina nella coda», aggiunge S&P. «Banche italiane: c’è bisogno di più per aumentare la fiducia». rincara Morgan Stanley. «Il fondo di salvataggio italiano mette in luce il rischio contingente delle grandi banche», puntualizza Fitch.

Sono i titoli dei report pubblicati nei giorni scorsi da banche d’affari e agenzie di rating statunitensi a commento del lancio del fondo Atlante, il veicolo voluto dal governo italiano e dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, sebbene a capitale quasi tutto privato, che dovrà farsi carico di sottoscrivere l’inoptato degli aumenti di capitale delle banche più in difficoltà e risolvere il problema delle sofferenze sui loro bilanci. Un progetto, condiviso anche col governatore Ignazio Visco, che ha avuto nella Cdp di Claudio Costamagna e Fabio Gallia un valido regista e immediati sostenitori nelle fondazioni capitanate da Giuseppe Guzzetti, in tutte le banche e nelle compagnie assicurative (vedere grafico in pagina).
Per contro, l’agenzia di rating tedesca Scope Rating e numerose banche d’affari italiane hanno plaudito all’iniziativa.

In particolare, Equita sim ha redatto un report dal titolo «Le spalle di Atlante aggiusteranno il rischio di coda», sottolineando che il progetto va a ridurre il rischio sistemico e per questo gli analisti della sim hanno deciso di ridurre il sottopeso sulle banche da 5 a 2 punti. In particolare, hanno alzato il peso del Banco Popolare (buy e target price a 13,5 euro) nel portafoglio principale, di Intesa Sanpaolo ma in versione risparmio (buy e target price a 3 euro) e di Unicredit (hold e target a 5,5 euro). E il progetto Atlante è stato benedetto anche da Mario Draghi che ha chiesto «cooperazione tra tutti i principali stakeholder, inclusi governi, banche, regolatori e investitori, a livello nazionale ed europeo» per risolvere il problema npl.
Ora il fronte compatto di no al fondo Atlante, senza alcun appello, da parte degli americani fa pensare che sia stato toccato un nervo scoperto, soprattutto sul tema delle sofferenze bancarie. E questo perché, a ben vedere, gli acquirenti di npl più agguerriti sinora sono stati propri i fondi Usa specializzati, con la sola eccezione di Banca Ifis, unico attore italiano presente in maniera significativa sul mercato, che l’anno scorso ha comprato npl per un valore lordo di 4,1 miliardi di euro (valore nominale), tutti di tipo unsecured (cioè non garantiti) e rappresentati da crediti al consumo o personali.

E quest’anno ha già annunciato l’acquisizione di due portafogli per un totale di 450 milioni. Per il resto, si diceva, la maggior parte delle transazioni sugli npl delle banche italiane è stata a opera dei fondi Usa, che ora per colpa del fondo Atlante devono rivedere i loro piani di acquisto a prezzi di saldo.
Per esempio, proprio in tandem con Banca Ifis, lo scorso giugno Cerberus Global Management ha acquistato un portafoglio di crediti consumer originati da Consum.it (gruppo Mps ): Ifis e Cerberus si erano comprati 650 milioni di euro lordi ciascuno. Molto attivo in Italia è poi AnaCap, che da Unicredit ha comprato quattro portafogli: uno pochi giorni fa da 420 milioni di prestiti al consumo, uno lo scorso settembre da 1,2 miliardi di prestiti a pmi (già cartolarizzati con l’operazione Trevi 3) e due nel 2014, rispettivamente da 1,9 miliardi e 700 milioni, sempre di prestiti a pmi. E la solita AnaCap lo scorso marzo si è aggiudicata un portafoglio da 2 miliardi di euro di npl italiani messo in vendita da GE Capital Real Estate e Rbs. Ancora Unicredit , poi, ha ceduto l’anno scorso agli americani di Fortress la piattaforma Uccmb (oggi doBank) e annesso portafoglio di crediti di proprietà da 2,4 miliardi. E ancora la banca guidata da Federico Ghizzoni lo scorso giugno ha ceduto a Pra Europa, parte dello statunitense Pra Group, 625 milioni di euro lordi di npl al consumo. Sempre l’anno scorso il fondo statunitense DE Shaw si era aggiudicato il portafoglio di crediti italiani di real estate non performing da 2,5 miliardi del fondo Whitehall di Goldman Sachs. Mentre Lone Star e Seer Capital hanno addirittura acquistato dei servicer italiani per la gestione di npl.

Ma l’apice è stato toccato da Apollo Global Management che, come noto, ha offerto di sottoscrivere 500 milioni di euro di aumento di capitale e di acquistare l’intero portafoglio di npl di Banca Carige da 3,5 miliardi a un prezzo netto di 695 milioni di euro (meno del 20%).

E qui torniamo a bomba, ossia alla questione del prezzo degli npl e di quante sofferenze il fondo Atlante potrà farsi carico o comunque far mettere sul mercato, innescando un circolo virtuoso per i bilanci degli istituti di credito e per il rilancio dell’economia del Paese. I prezzi che sinora si sono visti sul mercato sono in media del 3-5% del valore nominale per i crediti unsecured e del 25-30% per quelli secured, a fronte di valori netti a bilancio in media del 40% per i crediti secured, con un gap, quindi di 10-15 punti percentuali. Per contro, i crediti unsecured sono già praticamente tutti svalutati e questo spiega perché sinora la maggior parte delle transazioni abbiano riguardato npl di prestiti al consumo o utility.

Tutta l’operazione Atlante, però, è stata pensata per poter acquistare gli Npl a prezzi molto vicini a quelli netti di libro, per non caricare le banche di ulteriori perdite. E se è così, i capitali che in queste ore le varie banche stanno mettendo a disposizione del progetto Atlante sono effettivamente pochi rispetto alla montagna di crediti non performing che gravano sui libri del sistema. Stiamo parlando di più di 80 miliardi di euro netti. E quindi il mero confronto assoluto di questo numero con quei 6 miliardi di euro di target del fondo, di cui solo un 30% (cioè 1,8 miliardi) dovrebbe essere dedicato agli npl, non regge. E non regge nemmeno se si immagina che per quel 30% il fondo possa andare a leva del 50% (come si dice) arrivando quindi a 2,7 miliardi di potenza di fuoco.

Morgan Stanley, in un report pubblicato nei giorni scorsi, quando ancora queste proporzioni non si conoscevano, né si era parlato di leva, aveva ipotizzato che, una volta sottoscritti gli aumenti di capitale di Banca popolare di Vicenza (1,75 miliardi) e di Veneto Banca (1 miliardo), il resto dei capitali disponibili del fondo potesse essere investito in tranche junior di cartolarizzazioni di npl, cioè quelle più rischiose. Il conto portava quindi a 3,5 miliardi di euro disponibili. A quel punto, Morgan Stanley ipotizzava che le banche che avevano originato i crediti si tenessero in portafoglio una quota della tranche equity pari a quella sottoscritta dal fondo Atlante e che quindi il progetto Atlante potesse dare luogo alla sottoscrizione di tranche equity complessive per 7 miliardi di euro.

A questo punto il ragionamento portava a chiedersi che proporzione si potesse immaginare tra le tranche più rischiose e quelle meno rischiose, cioè le senior. La banca d’affari proponeva due ipotesi: una con una tranche equity pari al 30% del totale e un’altra con una tranche equity pari a quella senior (50-50%). Ipotesi che tengono conto della possibilità di chiedere la garanzia pubblica sulle tranche senior. Per ottenere la Gacs, infatti, la tranche senior in questione deve aver incassato preventivamente il rating investment grade e quindi i titoli senior non potranno ragionevolmente rappresentare meno del 50% del totale dell’emissione. Così facendo, in un caso si sarebbero potuti immaginare titoli senior per 16 miliardi e in un altro per soli 7 miliardi, il tutto per un totale di npl cartolarizzati compreso tra 14 e 23 miliardi.

Bernstein ha a sua volta fatto un esercizio simile a quello di Morgan Stanley ed è arrivato alla conclusione che il fondo Atlante con 5 miliardi sia sottocapitalizzato di 15 miliardi, tenuto conto dei tempi di recupero correnti dei crediti di sette anni.

MF-Milano Finanza ripropone l’esercizio di Morgan Stanley, modificandolo secondo le nuove ipotesi trapelate a proposito della struttura del fondo Atlante; ne deriva che, nella migliore delle situazioni, si potrebbero smuovere 27 miliardi di euro di npl dai libri delle banche italiane. Ma questa ipotesi prevede che la tranche equity sia non solo sottoscritta dal fondo Atlante e trattenuta in parte dalle banche originator, ma anche sottoscritta per una quota da investitori specializzati. Che andranno convinti del fatto che si tratta di un buon investimento, anche per la parte equity.

Certo, se gli investitori esteri fossero convinti di questo, si potrebbe immaginare di aumentare ulteriormente la quota di tranche equity e quindi replicare l’esercizio sino ad arrivare ai 50 miliardi di cui ha parlato il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan in un’intervista a Class Cnbc e MF-Milano Finanza nei giorni scorsi. L’alternativa per arrivare ai 50 miliardi è anche semplicemente immaginare una leva di 5 volte e non di 1,5 su quei 3,5 miliardi che resterebbero dopo aver sottoscritto gli aumenti di Banca Popolare di Vicenza e di Veneto Banca, ipotizzando che non ci siano più altri aumenti da garantire e che si contravvenga all’ipotesi iniziale di una proposrzione di 70-30 tra ricapitalizzazioni e npl. In questo scenario, il fondo arriverebbe ad avere 17,5 miliardi di euro da investire in tranche equity, che potrebbe rappresentare il 30% di 54 miliardi di euro di Npl netti da cartolarizzare.

Ma in fondo, ha detto bene venerdì 15 aprile il presidente del Consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo Gian Maria Gros-Pietro a margine di un convegno a Torino, «è importante non pretendere un recupero troppo accelerato dei crediti perché sarebbe dannoso per le imprese debitrici». Intesa Sanpaolo , ha aggiunto, ha deciso di aderire ad Atlante, «perché è un investimento redditizio e perché potremo conferire anche i nostri crediti deteriorati, che abbiamo già accantonato e quindi già svalutato, ad un prezzo equo e non a quello che pretendono i fondi speculativi» ha aggiunto. (riprodiuzione riservata)
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