di Gloria Grigolon 

Piena responsabilità per Patti Chiari all’interno delle vicende che riguardano la vendita di titoli catalogati come sicuri, ma che, nella realtà, non si rivelano come tali. La condanna, seguita alla sentenza del tribunale di Padova del 23 aprile 2015, ha obbligato il Consorzio bancario a risarcire in prima persona i danni legati alla vendita di obbligazioni Lehman Brothers per la mancanza di informazioni e l’assenza di aggiornamenti sul profilo rischio/rendimento forniti ai clienti nel periodo precedente al fallimento dell’ottobre 2008. La piena responsabilità di Patti Chiari, in tal caso, non esclude la condanna dell’attività portata avanti dalle banche, ma costituisce una nuova via di tutela del soggetto debole. L’elemento di novità della sentenza, che si prepara a divenire un caso scuola per futuri risarcimenti di analoga natura, riguarda non solo il diretto coinvolgimento di Patti Chiari (che in precedenza aveva visto condanne rivolte alle singole banche accusate di disinformazione verso il cliente), ma anche il fatto che la responsabilità del consorzio vale verso tutti gli investitori per ogni tipologia di titoli catalogati a basso rischio/rendimento presenti nell’elenco. Quest’ultimo, a detta di Patti Chiari, sarebbe dovuto essere «aggiornato quotidianamente per verificare» qualora un titolo avesse «perso anche solo uno dei requisiti fondamentali»; prerequisito che non è stato rispettato. La sostanza prevale quindi sulla forma di un giudizio (in termini di rating o di calcolo della rischiosità tramite, per esempio, il Var) che spesso può non identificare la vera natura dell’attività. Nel caso specifico di Lehman Brothers, come già era emerso dalle precedenti sentenze contro le banche in cui era stata data ragione agli investitori, l’elevata volatilità del prezzo dei titoli, l’alto numero di licenziamenti dell’istituto bancario statunitense prima del default e l’instabilità in cui il tessuto finanziario statunitense riversava a seguito della questione mutui subprime, erano da ritenersi una chiara prova che rende colpevole il consorzio di informazione scarsa e fuorviante.

La sentenza ha poi fatto emergere un nuovo presupposto, vale a dire che gli istituti bancari, nonostante vincolino i propri clienti alla compilazione del questionario Mifid per la catalogazione degli investitori secondo conoscenza e grado di rischiosità, non possono nascondersi dietro al profilo teorico delineato argomentando che un cliente ad alta preparazione possa di per sé verificare che l’attività in cui si è investito sia effettivamente valida. La composizione del portafoglio del cliente che, nonostante il profilo elevato, mostra al suo interno un grado di rischiosità contenuto e una gamma di investimenti a bassa aleatorietà è inoltre prova aggiuntiva del fatto che lo stesso non abbia interesse ad investire e ad esporsi eccessivamente col proprio patrimonio alla volatilità del mercato e che, dunque, richieda parimenti un elevato livello di tutela.

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