Il danno biologico, quale lesione del diritto inviolabile alla salute (art. 32 Cost.), va ricondotto nell’alveo del danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c. e ha una portata tendenzialmente omnicomprensiva, confermata dalla definizione normativa adottata dal D.Lgs. 209/2005, recante il Codice delle assicurazioni private (il cui art. 139 dispone che per danno biologico si intende la lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medicolegale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito), suscettibile di essere adottata in via generale, anche in campi diversi da quelli propri delle sedes materiae in cui è stata dettata, avendo il legislatore recepito sul punto i risultati, ormai generalmente acquisiti e condivisi di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale.
Nella nozione di danno biologico sono quindi ricompresi i pregiudizi attinenti ai profili dinamico-relazionali della vita del soggetto danneggiato nonché ogni aspetto concernente la sofferenza morale, non necessariamente transeunte, conseguente all’evento lesivo, risarcibile – ex art. 185 c.p. – allorché cui tale evento configuri un illecito penale (e ciò anche nell’ipotesi in cui, in sede civile, la colpa dell’autore del fatto risulti da una presunzione di legge e, ricorrendo la colpa, il fatto sarebbe qualificabile come reato).
Ed invero, secondo le sezioni unite della Suprema Corte, il danno non patrimoniale costituisce una categoria generale non suscettiva di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate ed il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati, risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno.
Pertanto, è fonte di ingiustificate duplicazioni di risarcimento l’attribuzione di distinte poste risarcitorie (liquidate, magari, l’una in percentuale dell’altra) a titolo di danno biologico, di danno morale e di quel pregiudizio – scaturente dalle alterazioni alla vita di relazione, dalla perdita di qualità della vita, dalla compromissione delle dimensioni esistenziali della persona – che nell’elaborazione di dottrina e giurisprudenza aveva preso la definizione di danno esistenziale (la cui autonoma configurazione deve essere definitivamente superata, giacché attraverso questa si finisce per portare, contro la volontà del legislatore, il danno non patrimoniale nell’atipicità, sia pure attraverso l’individuazione della apparente tipica figura, in cui tuttavia confluiscono fattispecie non necessariamente previste dalla norma ai fini della risarcibilità di tale tipo di danno).
Alla luce di ciò, posto che il risarcimento del danno alla persona deve essere integrale (nel senso che deve ristorare interamente il pregiudizio, ma non oltre), sarà compito del giudice quello di procedere ad un’adeguata personalizzazione del danno non patrimoniale, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza, comprensivo sia della lesione dell’integrità psicofisica che delle conseguenti sofferenze.
Nel risarcimento del danno non patrimoniale qualora, al momento della liquidazione del danno biologico, la persona offesa sia deceduta per una causa non ricollegabile alla menomazione risentita in conseguenza dell’illecito, alla valutazione probabilistica connessa con l’ipotetica durata della vita del soggetto danneggiato debba sostituirsi quella del concreto danno effettivamente prodottosi, cosicché l’ammontare del danno biologico il cui ristoro gli eredi del defunto domandano iure successionis va calcolato non con riferimento alla durata probabile della vita del defunto, ma alla sua durata effettiva, per quanto tenendo conto del fatto che nei primi tempi il patema d’animo è più intenso rispetto ai periodi successivi.
In armonia con il condivisibile orientamento della Suprema Corte dianzi richiamato, dunque, qualora la morte non sia stata causata dalle lesioni, ma sia sopravvenuta per altra causa allorquando – come nel caso di specie – le lesioni si erano evolute in postumi invalidanti stabilizzati, la liquidazione del danno biologico da invalidità permanente deve seguire regole particolari, in quanto la durata della vita, in questo caso, non costituisce più un dato presunto, ma un dato reale: è possibile, così, sapere per quanto tempo il danneggiato ha dovuto convivere con la sua menomazione, con la conseguenza che il giudice deve tener conto non della vita media futura presumibile della vittima, ma della vita effettivamente vissuta.
Da tale considerazione discende, quale logico corollario, che l’ammontare del danno non patrimoniale trasmissibile iure hereditatis dovrà essere calcolato non già in relazione all’aspettativa di vita media, bensì in relazione all’effettiva vita residua goduta: ciò in quanto ai fini della liquidazione dell’anzidetto pregiudizio, l’età in tanto assume rilevanza in quanto col suo crescere diminuisce l’aspettativa di vita, sicché è progressivamente inferiore il tempo per il quale il soggetto leso subirà le conseguenze non patrimoniali della lesione della sua integrità psicofisica.
In altri termini, quando la durata della vita futura cessa di essere un valore ancorato alla probabilità statistica e diventa un dato noto per essere il soggetto deceduto, allora il danno biologico (riconoscibile tutte le volte che la sopravvivenza sia durata per un tempo apprezzabile rispetto al momento delle lesioni) va correlato alla durata della vita effettiva, essendo lo stesso costituito dalle ripercussioni negative (di carattere non patrimoniale e diverse dalla mera sofferenza psichica) della permanente lesione della integrità psicofisica del soggetto per l’intera durata della sua vita residua.
Tribunale di Palermo, sez. I Civile, 26 novembre 2014 n. 5828