Nonostante il Qe, l’erogazione dei prestiti è frenata da regole fiscali e bancarie insormontabili. Anche lo strumento dei minibond così com’è non basta. Servono provvedimenti tattici e innovazione strategica: un modello di politica industriale basato sull’assorbimento del rischio dei nuovi finanziamenti erogati alle Pmi. Salvestroni, uno dei massimi esperti di finanza d’impresa, propone una ricetta per superare lo stallo

di Jole Saggese Class Cnbc 

I

l primo mese di Quantitative easing deciso da Mario Draghi non sembra essersi immediatamente tramutato in un’espansione del credito accordato dalle banche, soprattutto alle Pmi. È solo l’inizio, o a sfavorire questo trasferimento di preziose risorse è anche un insieme farraginoso di norme che vincola la concessione di finanziamenti? Ed è possibile trovare una soluzione concreta? Milano Finanza e Class Cnbc ne hanno parlato con uno specialista del settore, l’ingegner Mario Salvestroni, presidente del comitato Credito e Finanza di Confindustria Toscana e di Mps Capital Services, uno dei fautori in Italia dello strumento dei minibond.

Domanda.

In Italia il credito esterno alle Pmi è ancora fornito al 100% dal sistema bancario, a fronte del 70% della Germania e del 30% degli Usa. Come mai?

Risposta. Uno dei principali motivi deve essere ricercato in una disposizione di legge che risale al 1995: gli effetti perversi del comma 115 dell’art. 3 della legge 549/95 non sono ancora stati attenuati. Questa norma introdusse il tasso limite per la detraibilità degli interessi passivi pagati ai sottoscrittori dei titoli di debito emessi da società non quotate, ponendo questo tasso massimo, cosiddetto tasso soglia, alla misura del Tasso ufficiale di sconto incrementato di 2/3. Nel 1995 il Tus era il 9%, che incrementato di 2/3 portava il tasso al 15%, mentre i Btp a 10 anni rendevano circa l’11%. Sia le obbligazioni emesse dalle Pmi sia i Btp erano tassati al 12,5%, quindi una Pmi poteva offrire una maggiore remunerazione di circa il 4% a colui che sottoscriveva i propri titoli certamente più rischiosi dei titoli di Stato.

D. Con il tempo questo vantaggio si è affievolito

R. Dal 2002, con l’avvento dell’euro, il Tus è diventato Tur (Tasso unico di riferimento) che attualmente è lo 0,05%, che incrementato di 2/3 rimane praticamente zero; inoltre dal 1° luglio 2014 l’aliquota della tassazione delle obbligazioni emesse dalle società, come le altre rendite finanziarie, è stata elevata al 26%, mentre è rimasta al 12,5% quella sui Btp. Morale: oggi una Pmi che emette obbligazioni può offrire un tasso di interesse netto di circa un ventesimo di quello offerto dai più sicuri Btp: a queste condizioni nessun finanziatore investe in titoli più rischiosi.

D. Una clamorosa carenza di aggiornamento, dunque.

R. Già. Nonostante il comma 115 dell’art. 3 prevedesse che «i limiti indicati nel primo periodo possono essere variati tenendo conto dei tassi effettivi di remunerazione delle obbligazioni e dei titoli similari rilevati nei mercati regolamentati italiani», il legislatore non ha mai ritenuto opportuno aggiornarlo, creando un sistema finanziario completamente bancocentrico. Ma non è tutto: questa esclusiva del sistema bancario nel finanziamento alle Pmi, da una parte elimina la concorrenza sul tasso di remunerazione accordato sui depositi dei residenti (circa 1.331 miliardi) ma dall’altra assegna al sistema stesso anche l’esclusiva dei crediti in sofferenza che ammontano a circa 185,5 miliardi, con una crescita di circa 120 miliardi in sei anni.

D. Dopo i crack Cirio e Parmalat , forse la tutela del piccolo risparmiatore verso i bond aziendali è stata eccessiva

R. Eppure il piccolo risparmiatore può liberamente sottoscrivere titoli quotati fortemente rischiosi come i warrant, con cui può perdere in pochi mesi il 100% del proprio capitale, oppure può liberamente sottoscrivere le quote di partecipazione al capitale di micro imprese o Pmi. Piuttosto, il legislatore è più sensibile nei confronti del sistema finanziario nel suo insieme, di quanto non lo sia nei confronti dell’economia reale.

D. Nel resto del mondo la situazione è diversa. A finanziare le Pmi intervengono fondi di private equity, venture capital, attività di crowdfunding o strumenti come i minibond. Perché in Italia non avviene o quasi?

R. L’economia italiana è basata sulle micro e piccole imprese che hanno difficoltà a crescere perché se si escludono le attività ad alto valore aggiunto, quali la moda o le tecnologie avanzate, le rimanenti, che generano la maggior parte dell’occupazione e la parte essenziale del gettito fiscale, sono letteralmente soffocate da un sistema di norme che contrastano efficacemente la convenienza a fare impresa in Italia. Volete qualche dato?

D. Prego.

R. Il cuneo fiscale: 1.000 euro di lavoro costano all’impresa 3.555 euro. In pratica, le imprese retribuiscono 15 mesi su nove effettivamente lavorati. La tassazione totale sulle imprese (Total tax rate) sulle imprese ordinarie supera normalmente il 90%, il più alto d’Europa. Non fatevi ingannare dalla Banca Mondiale, secondo cui questo valore è pari al 65,8%: è un valore medio, che include tutti i settori agevolati, assistiti da benevolenza fiscale. E poi c’è la corruzione e per finire, appunto la difficioltà di accesso al credito, dove c’è una letale interazione.

D. Quale?

R. L’interazione continua tra merito del credito (rating) e livello di tassazione. Le norme hanno privilegiato la garanzia del gettito fiscale anche in danno della stabilità economica. La politica ha pensato, erroneamente, che la crisi avrebbe avuto una durata più breve per cui sembrava accettabile la perdita di una quota di economia reale, a tutela dei privilegi concessi e acquisiti. Invece il protrarsi della fase recessiva sta avvicinando l’economia italiana al punto di non ritorno.

D. Assolve le banche, allora?

R. Le banche sono società private che giustamente rispondono agli interessi dei propri azionisti, per cui devono produrre utili – attività molto difficile di questi tempi – e devono garantire la sicurezza dei risparmi dei depositanti, applicando le regole imposte dal sistema di regolamentazione e vigilanza. Nonostante i tentativi di correzione, le regole attuali rimangono sempre fortemente procicliche, cioè spingono le banche a farsi una concorrenza spietata sulle aziende con i rating migliori, cercando di convincere queste ultime ad accettare finanziamenti a qualunque tasso. Questa liquidità in eccesso viene allora impiegata in finanza e non in investimenti dell’economia reale. Contemporaneamente, gli istituti cercano di rientrare con qualunque mezzo dai finanziamenti concessi alle aziende che operano nei settori più esposti alla crisi economica.

D. Quindi la liquidità abbondante in arrivo è inutile?

R. No. È una condizione necessaria per la concessione del credito alle imprese, ma non sufficiente, perché, nei confronti delle aziende che hanno i rating deteriorati da sette anni di crisi profonda ed estesa, le banche sono costrette ad accantonamenti al proprio patrimonio di vigilanza di tale entità da rendere poco conveniente l’erogazione dei finanziamenti, anche praticando condizioni vicine al tasso di usura. La ciliegina sulla torta la mette poi lo Stato.

D. Come?

R. Le aziende più rischiose, quando ottengono credito, pagano interessi molto elevati che appesantiscono il loro conto economico. Arriva il fisco e sanziona le aziende in difficoltà con l’applicazione delle norme salva gettito: l’art. 96 del Tuir e l’Irap, che colpiscono gli interessi passivi con aliquote fino al 32%. Un sistema perfido che innesca una spirale letale, fra l’altro, in aperta violazione dell’art. 53 della Costituzione: l’imposta non è applicata in ragione della capacità contributiva e la tassazione non «è informata a criteri di progressività», caso mai a criteri di progressività inversa, cioè si puniscono i poveri per rendere il fisco più gradevole ai ricchi.

D. È pur vero che per le Pmi quasi sempre il convento è povero, in termini di capitale, mentre i frati sono ricchi

R. Sì, ma è doveroso chiarire che la famosa e continuamente citata cronica sottocapitalizzazione delle imprese italiane è la conseguenza diretta della scarsa convenienza di fare impresa, per cui la sottocapitalizzazione è l’effetto delle citate norme anticrescita e non la causa. I fondi italiani e stranieri di private equity, venture capital e le attività di crowdfunding incidono poco nello sviluppo dell’economia italiana, perché questi fondi sono alla ricerca di brand della moda o di aziende innovative e leader nei propri settori, anche in fase di sviluppo, che risentono meno dei freni alla crescita citati.

D. Lei è uno dei fautori in Italia del minibond. È soddisfatto della sua creatura?

R. Per i minibond il discorso è completamente diverso. Li ho molto spinti e pubblicizzati perché avrebbero dovuto essere una sorta di parziale risarcimento rispetto al citato comma 115 dell’art. 3 della legge 549/95, in attesa di una profonda revisione della normativa relativa ai titoli di debito emessi dalle Pmi non quotate. Ai mini bond, infatti, non si applica la limitazione del tasso soglia rimanendo, comunque, l’applicabilità dei limiti alla detrazione degli interessi passivi imposta dall’art. 96 del Tuir. Ciò che ha limitato l’uso di questo strumento è da ricercarsi altrove: sia al comma 8 che al comma 24 bis dell’art. 32 del dl 83/2012, dopo la parola investitori è stato inserito il termine qualificati.

D. E allora?

R. Ciò ha reso disponibili questi nuovi strumenti finanziari solo ai finanziatori professionali, che attraverso i loro asset manager, abituati a sottoscrivere titoli con rating elevatissimi, pretendono dalla sottoscrizione dei titoli emessi dalle Pmi, caratterizzati da rating più modesti, rendimenti troppo elevati rispetto all’attesa di chi li vuole emettere. Quindi non c’è incontro tra la remunerazione richiesta per il rischio dal finanziatore e il tasso offerto dall’emittente. Il progetto iniziale dei mini bond prevedeva l’apertura, con alcune limitazioni, anche agli investitori non qualificati.

D. Anche per risolvere questo problema lei ha una proposta alternativa, che ha presentato anche a Banca d’Italia. In cosa consiste?

R. Il governo sta affrontando gli ostacoli principali allo sviluppo economico con riforme strutturali inderogabili ma che rischiano di essere tardive. Il tempo necessario, infatti, per studiarle, condividerle con gli altri stakeholder, approvarle, emettere i decreti attuativi, metterle in esercizio, ottenerne i benefici, non può essere inferiore a cinque anni. È un tempo troppo lungo, incompatibile con quello residuo per mantenere competitiva un’economia ormai in larga parte dissanguata da sette anni di profonda crisi. Mentre la politica si impegna, realmente e senza indugio, ad approvare e mettere in servizio le tanto attese riforme strutturali, la finanza deve comprare tempo, almeno i cinque anni richiesti per un’evoluzione non traumatica verso una crescita economica stabile.

D. Come?

R. Il sistema finanziario e fiscale devono fornire alle imprese gli strumenti che rilancino concretamente e massicciamente lo sviluppo attraverso strumenti tattici e strategici.

D. Partiamo da quelli tattici.

R. Tra le misure velocemente attuabili, metterei la revisione del tasso soglia già ricordata. Fra l’altro, con la tassazione delle rendite finanziarie al 26% non si pone neanche il rischio di arbitraggio strumentale in cui potrebbe teoricamente incorrere il titolare o socio di un’impresa che scegliesse di prelevare gli utili dall’azienda attraverso gli interessi corrisposti a fronte dei titoli obbligazionari emessi, piuttosto che affrontare le imposte dirette sugli utili. Questa sottoscrizione non deve essere vista come una manovra elusiva, ma piuttosto come la dimostrazione concreta che il titolare o il socio stesso sono i primi a credere nella solidità della società, e questo costituisce un’ulteriore garanzia per i terzi.

D. E poi?

R. Si può incrementare la liquidità disponibile attraverso un titolo a medio/lungo termine esterno al sistema bancario, così da ridurre l’indebitamento a breve termine, da costituire una spinta verso la patrimonializzazione della società e da renderla più attraente nei confronti di finanziatori esterni, e per il limite alla emissione dei titoli di debito costituito dal doppio del patrimonio netto esistente. Ancora, a livello tattico la finanza può creare prestiti capitalizzativi incentivati fiscalmente, finanziamenti a medio-lungo termine con rimborso a rate variabili indicizzate a parametri di settore e di durata automaticamente prolungabile in funzione della variazione del tasso di interesse complessivo. E infine favorire a livello normativo e fiscale i micro e minibond.

D. E la legislazione fiscale come potrebbe aiutare, tatticamente?

R. Per esempio, con la revisione delle quote di ammortamento più orientate a proteggere il cash flow aziendale piuttosto che il gettito fiscale. E con la revisione delle regole fiscali affinché le imposte dirette non possano erodere il patrimonio netto della società. Ma la tattica non basta, occorre anche una manovra di tipo strategico.

D. Quale?

R. Occorre un nuovo modello di politica industriale, basato sull’assorbimento del rischio di credito per il finanziamento delle Pmi. Anche un’impresa che fallisce, prima di diventare insolvente, si sviluppa, investe, assume dipendenti, paga le tasse e i contributi: qualche volta addirittura il fallimento deriva da eccessivi investimenti. In conclusione, anche queste imprese creano valore aggiunto, contribuiscono attivamente al gettito fiscale, che non è funzione solo del reddito d’impresa. Nelle fasi di congiuntura positiva il numero percentuale di imprese che falliscono è basso, inferiore al 3%; in quelle di congiuntura negativa cresce, fino a superare il 10%, ma come ho detto anche il fallimento di un’impresa, oltre agli aspetti negativi evidenti, distribuisce valore aggiunto a soggetti terzi e mette sul mercato forza lavoro addestrata e più disponibile al cambiamento. Comprenderete bene la relazione esistente tra il livello del credito concesso alle imprese e le sue dirette implicazioni sul pil e, quindi, a cascata, sul gettito fiscale.

D. E date queste premesse?

R. La mia proposta consiste nel suddividere il Pil in un numero contenuto di settori economici, comunque rappresentativi di una quota importante del pil, non inferiore al 95%. Supponiamo siano per esempio edilizia, agricoltura, manifatturiero, turismo e così via. Per ogni settore si può creare un modello matematico che descriva l’andamento del valore aggiunto creato e quindi, conoscendo la fiscalità del settore, in prima approssimazione quella media ponderata, si calcola la base imponibile in funzione del credito erogato. Dalla base imponibile, conoscendo ilTotal tax rate (Ttr) del settore, cioè il valore medio del totale imposte e contributi che colpisce lo specifico settore, si ottiene l’andamento del gettito fiscale e contributivo totale che viene generato dal settore stesso in funzione del credito erogato. Estrapolando l’andamento della funzione ottenuta, si è in grado di prevedere, con buona approssimazione, a quanto ammonterà l’incremento delle imposte e contributi totali a fronte di una quantità definita di maggior credito concesso a quel settore economico. Replicando la cosa agli altri settori si può costruire un modello che rappresenti l’andamento del gettito fiscale e contributivo totale in Italia in funzione dell’extra credito concesso.

D. E una volta conosciuto questo dato?

R. Questo extra gettito fiscale sarà diviso in due parti. La prima, supponiamo corrisponda al 60% del totale, sarà incamerata dal fisco; la seconda confluirà in un apposito fondo (che possiamo chiamare Fondo Garanzia Italia) che garantisce, pro quota rispetto ai finanziatori, l’intera economia del settore, spesando anche, in proporzione, tutti i fallimenti statisticamente attesi. Supponiamo che il governo voglia sostenere il settore edile e che per un periodo determinato o per opere specifiche, per esempio l’edilizia turistica, la garanzia a carico del Fondo Garanzia Italia copra il 75% del rischio di credito: il residuo 25% sarà a carico della banca finanziatrice che avrà, in esclusiva, la valutazione della richiesta di credito e l’erogazione del finanziamento. Il tasso applicato all’operazione sarà fissato in funzione del merito creditizio del richiedente ma sarà limitato nell’ammontare, a fronte della garanzia ricevuta che comporterà un assorbimento di capitale nullo per la quota garantita.

D. Non sarà un modello matematico difficile da costruire e con basi statistiche fragili?

R. Al contrario, la Banca d’Italia dispone delle banche dati che mettono in relazione il valore aggiunto in rapporto al credito erogato: i dati sono relativi agli ultimi 20 anni e sono disponibili per regione, per settore economico e per natura giuridica dell’impresa. E la Banca d’Italia mi sembra disponibile a fornire l’accesso alle banche dati per la realizzazione dei modelli matematici.

D. Facciamo un esempio concreto.

R. Prendiamo un esempio di regola che definisca il tasso massimo applicato ai finanziamenti alle imprese più rischiose del settore edilizia: tasso massimo uguale al doppio del tasso di usura moltiplicato per la percentuale di rischio a carico della banca. Numericamente sarà: 14% (tasso di soglia per gli anticipi commerciali) moltiplicato 2 e moltiplicato per 0,25 (rischio a carico della banca), quindi tasso massimo 7%. Stabilite le percentuali di garanzia per ogni settore, il modello matematico viene aggiornato in tempo reale, per cui si è creato un cruscotto che in continuo indica il totale gettito incrementale in funzione del credito erogato a partire da un valore iniziale, la giacenza del fondo, gli impegni assunti, i possibili scostamenti tra i valori del modello matematico e i dati reali, le azioni da intraprendere per azzerare l’eventuale scostamento e altre statistiche e previsioni.

D. In termini complessivi, quale sarebbe il beneficio?

R. Supponendo che il Fondo Garanzia Italia garantisca il 60% del totale incremento di credito, su di esso le banche avrebbero un assorbimento di capitale 2,5 volte inferiore rispetto a quello attuale: in altre parole, con lo stesso patrimonio di vigilanza, in teoria potrebbero erogare fino al 250% del credito attuale. Anche se prudenzialmente, si erogasse molto meno del limite teorico, il sistema finanziario sarebbe comunque più solido.

D. Ma a questo punto la banca che cosa finanzierebbe?

R. Avendo le garanzie relative ai singoli settori, la banca finanzierebbe il capitale circolante delle imprese, gli investimenti fino a un limite di durata e di importo, e acquisterebbe titoli di debito emessi dalle Pmi. Inoltre, in funzione dell’ammontare delle garanzie ricevute acquisterebbe, al valore di mercato, le quote del Fondo aperto SI Italia (Solo Investimenti Italia) che i piccoli risparmiatori volessero vendere.

D. Aspetti, che cos’è questo Fondo?

R. È il secondo aspetto della mia proposta. Il Fondo SI Italia sarebbe costituito attraverso la sottoscrizione di quote da parte di finanziatori qualificati e non qualificati, ma solo questi ultimi avrebbero il privilegio di poter vendere in qualunque momento le quote da loro possedute con le banche, come detto, impegnate ad acquistarle. Lo scopo è di abituare il piccolo risparmiatore a indirizzare i propri risparmi verso gli investimenti sull’economia italiana, retribuiti con tassi d’interesse non inferiori a quelli della concorrenza estera e con garanzie estremamente più solide.

D. Che cosa farebbe il Fondo SI Italia?

R. Parteciperebbe, tra l’altro, ai vari fondi regionali con gli stessi scopi, ma destinati agli impieghi locali. I fondi regionali e, in quota parte, il fondo SI Italia sarebbero destinati ad operare negli investimenti di maggiore dimensione e durata, ricevendo le garanzie dal Fondo Garanzia Italia con regole simili al sistema bancario.

D. Nella sua proposta è lo Stato a garantire i finanziamenti. Non teme che questo accresca l’indebitamento pubblico e riapra il conflitto con l’Europa?

R. No, non è un rischio che si assume lo Stato. Lo Stato rinuncia a una quota di extra gettito che confluisce in un fondo, dimensionato prudenzialmente per eccesso e monitorato in tempo reale, che costituisce l’intera garanzia del modello. Al contrario, si può facilmente sostenere che le proposte del Comitato di Basilea, che sono ispirate a rendere stabile il sistema finanziario a tutela dei risparmiatori, vanno esattamente nella direzione della mia proposta che tende a ridurre ulteriormente il rischio degli intermediari nel finanziamento alle Pmi. Le conseguenze sull’economia italiana, costituita prevalentemente da Pmi, delle norme ispirate dalle proposte del Comitato di Basilea, in presenza di una crisi così vasta e duratura, stanno producendo una selezione continua ed eccessiva tale che, se il governo non interviene rapidamente, comprimerà così pesantemente l’economia italiana da mettere a rischio anche la stabilità dei soggetti che il Comitato voleva tutelare.

D. La sua proposta, però, attribuisce allo Stato la scelta dei settori nei quali intervenire più o meno massicciamente. Non sarebbe meglio lasciarlo fare al mercato?

R. I cambiamenti durante le crisi subiscono un’accelerazione importante, molti problemi derivano dalla differente velocità tra i cambiamenti e la reazione dell’economia agli stessi. Lo Stato deve avere un compito di regia per ridurre i disagi più significativi conseguenti a queste distonie. Il mercato rimane l’arbitro unico all’interno dei vari settori.

D. La sua proposta è legata a un periodo di tempo definito: cinque anni di tempo. Cosa dovrebbe accadere in questo periodo?

R. Come ho detto, la finanza, anche quella buona, al più compra tempo, cioè crea euforia economica, ma la spinta è limitata nel tempo. Se in questo periodo l’Italia non riesce a diventare competitiva in termini di costo per unità di prodotto la spinta si esaurisce e i problemi rimangono. Quindi la mia proposta non va fraintesa nella fase dell’euforia iniziale, ritenendo che la nottata sia passata, ma non va nemmeno applicata troppo a lungo, perché lo sviluppo deve derivare dalla competitività del sistema Paese e non solo dal sostegno finanziario maggiormente protettivo: stiamo parlando di un trattamento da pronto soccorso per un evento traumatico e non di terapia per una malattia cronica.

D. Ma non si genererebbe anche nel credito, così fortemente garantito, un effetto bolla ?

R. No, siamo molto distanti. L’economia sta morendo per mancanza di ossigeno, non vedo rischi immediati da iperventilazione. Se il metodo viene applicato in modo ragionevole, con controllo in tempo reale e per un periodo limitato di cinque anni o poco più, non corriamo alcun rischio di bolle speculative.

D. Chi deve pronunciarsi su questa proposta? E quali sono i tempi, secondo lei, per riuscire a realizzarla?

R. Questa proposta è indirizzata al ministero dello Sviluppo Economico e al ministero dell’Economia e Finanze. Chiaramente si tratta di una decisione molto complessa che deve essere fatta propria dal governo. La parte che ho definito tattica può essere avviata in tempi molto a brevi, entro due mesi. La parte strategica, se ci fosse una concreta volontà politica, potrebbe essere realizzata in nove mesi, quindi entro il primo trimestre del prossimo anno. Si potrebbe pensare anche inizialmente a test mirati, su base regionale oppure applicati ad alcuni settori strategici o in alternativa ai settori che hanno subito più di altri le conseguenze della crisi economica e finanziaria. (riproduzione riservata)