di Angelo De Mattia

Sono state articolate le risposte date sulla stampa in questi giorni da esponenti del governo alle critiche mosse dall’Abi alla maggiorazione della tassazione delle plusvalenze delle quote del capitale della Banca d’Italia decisa dal Consiglio dei ministri di venerdì. Renzi ha detto che in un periodo di difficoltà ognuno deve fare la propria parte. Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha fatto sapere che della cosa si è discusso con l’Assobancaria e che si troverà una soluzione facendo riferimento, in una forma decisamente criptica, al fatto che si inciderà sul patrimonio anziché sui bilanci. Il viceministro Morando ha invece lasciato la porta aperta ad approfondimenti. Da questo insieme di reazioni si deduce che è probabile che su qualcosa si innoverà in occasione della conversione in legge del decreto che ha introdotto la maggiorazione. In effetti è possibile ritenere assai forti le contestazioni dell’Abi. Ugualmente è condivisibile l’affermazione di Renzi sull’equa distribuzione dei sacrifici. Al tempo stesso occorre evitare il rischio boomerang, quale potrebbe essere la contestazione nelle sedi deputate dell’illegittimità della maggiorazione con la conseguenza del venir meno di una copertura importante degli stanziamenti deliberati venerdì; a quel punto ci sarebbe la necessità di ricorrere alle clausole di salvaguardia con l’aumento, in sostituzione, delle entrate in altra forma. Si potrebbe dire: intanto però si acquisisce il previsto gettito, dal momento che l’imposta dovrà essere assolta in un’unica soluzione entro giugno, poi si vedrà. Ma questo è il modo classico in cui i governi hanno fin qui ragionato, scaricando sul futuro oneri certi ed eventuali. Avanzare dubbi sul fondamento della maggiore tassazione può risultare impopolare, considerata l’immagine che le banche hanno, anche per ciò che pubblicamente sostengono esponenti dell’esecutivo. Concorrono a tale immagine ritardi e arretratezze, ma non mancano difetti di conoscenza e radicati pregiudizi in chi critica. Detto ciò e sfidando l’impopolarità, si deve ritenere decisamente esagerata la decisione di aumentare dal 12 al 26% la tassazione delle plusvalenze in questione. Va ricordato che l’aumento del capitale della Banca d’Italia da 156 mila euro – quale era stato fissato in lire (300 milioni) nel 1936 – a 7,5 miliardi è stato un atto legittimo e dovuto. Giustamente Padoan ha negato che si sia trattato di un regalo. Nel contempo è stato promosso un miglioramento della governance della Banca centrale e soprattutto sono stati delimitati i diritti economici delle banche e degli altri intermediari «quotisti». È stato quindi deciso di tassare la plusvalenza che i soggetti partecipanti hanno così realizzato con l’aliquota del 12%. L’assemblea straordinaria dei partecipanti al capitale della Banca ha approvato poi, per la parte che le compete, l’operazione. Al momento del varo del provvedimento di legge si sarebbe potuto fissare una tassazione maggiore, equilibrata ma superiore al 12%. Chi scrive aveva proposto il 16 o il 18%. Forse si sarebbe potuto arrivare al 20%. A una imposta, per esempio, del 16% – come alternativa – si sarebbe potuto affiancare un protocollo tra Tesoro e banche per la destinazione selettiva dei nuovi finanziamenti che, con il rafforzamento patrimoniale conseguente alla rivalutazione, si vengono a liberare. Si è preferito invece attestarsi sul 12%, verosimilmente perché in quella stessa fase le banche venivano incise con un «acconto» Ires del 130%, con l’aumento dell’addizionale dell’8,5% e con una serie di altre misure che coinvolgono la clientela ma che si riflettono anche sulle stesse banche, quale la «patrimonialina» sulle comunicazioni riguardanti gli strumenti finanziari e la Tobin Tax. Non bisogna mai dimenticare che gli istituti di credito impiegano danaro dei risparmiatori che va tutelato e remunerato. Ora, se si eleverà definitivamente al 26% la tassazione, si registrerà senz’altro un impatto pro quota sulla capacità di erogare prestiti da parte delle banche. Ciò accadrà mentre è in corso l’asset quality review della Bce, cioè quando l’analisi della condizione patrimoniale dei 15 maggior istituti coinvolti e della qualità del credito sarà pregnante, come dimostra il caso Mps, mentre la comparazione con le altre banche europee sarà naturale. Ora che il «gioco» si sta svolgendo o già si è svolto con la redazione dei bilanci che le banche sottopongono in questi giorni alle assemblee, le regole vengono cambiate. Ne nasce un problema sul versante della reatroattività di una norma che impone un onere maggiore confliggendo con il principio «pacta sunt servanda». Si può rafforzare la critica di chi vede nella rivalutazione l’intento di assicurare al Tesoro un significativo gettito, adombrando l’ipotesi del finanziamento monetario dello stesso Tesoro e, per converso, di chi ritiene che sia stata data un’agevolazione alle banche, profilando un’altra ipotesi, quella di aiuto di Stato. Insomma, un pasticcio dal quale occorrerebbe uscire rapidamente. Le vie della mediazione non sono però venute meno. Una diversa calibratura della tassazione e il ritorno sulla destinazione selettiva dei maggiori finanziamenti possibili potrebbe essere una di queste strade. Un’altra via comporterebbe una complessiva discussione del rapporto tra banche e fisco, tenendo conto in particolare del deterioramento della qualità del credito. Insomma, non giova a nessuno considerare non più modificabile la maggiore tassazione. Ciò non significa che non si debba corrispondere al dovere di tutti di fare la propria parte: di farla però in un contesto in cui il governo dosi le proprie scelte. (riproduzione riservata)