Pagina a cura di Duilio Lui  

 

La debolezza persistente del quadro congiunturale spinge molte aziende a concentrare gli sforzi sulla sopravvivenza. Ma questo non è un buon motivo per abbassare la guardia sulla gestione dei rischi, che non riguardano solo il core business e gli aspetti finanziari, ma coprono uno spettro che va dalle minacce fisiche (si pensi ai possibili danni agli impianti in caso di incendio o terremoto) alle responsabilità in sede civile e penale per gli amministratori, fino ai danni reputazionali. Tuttavia, al contrario, la tendenza tra le pmi italiane è di dedicare poche risorse al ruolo della gestione dei rischi. È lo scenario tratto dalla seconda edizione del rapporto «Il risk management secondo le Pmi italiane», curato dal Cineas-Politecnico di Milano.

Poche risorse dedicate. Per quanto riguarda i ruoli e le responsabilità per la gestione del rischio, bassissima è l’incidenza delle imprese che dedica una risorsa a tempo pieno ad attività di risk management, e anche in questo caso non è detto che si tratti di una sottovalutazione del fenomeno, ma probabilmente di mancanza di risorse adeguate. Così, nella stragrande maggioranza dei casi (90% per le piccole imprese italiane e 82% per le medie) il compito è assolto da una figura interna che ricopre altri ruoli, come l’amministratore delegato (72%) o il direttore finanziario nel caso delle medie imprese. Ruoli apicali, che spesso vedono assorbita la maggior parte della giornata in altre attività, rischiando quindi di dedicare al risk management un’attenzione limitata.

Le nuove sfide poste dall’internazionalizzazione. Analizzando i comportamenti di 701 aziende italiane è emerso che le imprese che percepiscono il mercato in contrazione sono il 46% (in aumento di quasi il 20% sul 2012). Di queste il 90% interviene decidendo di operare cambiamenti all’interno della struttura di vertice, mentre solo il 45% si apre a nuovi mercati che abbiano una domanda in crescita e/o disponibilità di materie prime a costi inferiori. Un dato in diminuzione rispetto al 2012, quando questa scelta veniva fatta dal 59% delle aziende. Il che non significa automaticamente una sottovalutazione dei mercati emergenti, considerato che le piccole e medie imprese spesso faticano a reperire finanziamenti presso il canale bancario. Il 63% del campione non adotta tecniche di gestione del rischio. Tra quelle che lo fanno, oltre la metà (52%) valuta i rischi in maniera formale e secondo un processo strutturato, un dato in aumento di circa il 10% rispetto al 2012. Marco Giorgino, direttore risk governance del Politecnico di Milano, sottolinea come, tra le pmi che negli ultimi anni sono entrate in nuovi paesi, non tutte hanno avuto la forza per raccogliere le nuove sfide competitive che i mercati pongono. «In assenza di adeguati sistemi per il risk management», spiega, «il rischio effettivo è la stasi e, di conseguenza, il peggioramento del panorama economico italiano». Dall’osservatorio emergono, comunque, anche segnali positivi: la spesa per il risk management nelle pmi italiane è in aumento sia in termini assoluti sia percentuali, in modo più marcato per le medie imprese, passando dal 2012 al 2013 dallo 0,3% al 3,8% del fatturato per le aziende con più di 10 milioni di fatturato».

Rispetto al 2012 la percezione del profilo di rischio è costante e di tipo «medio» (cioè quello attuale). Diminuiscono invece coloro che percepiscono il rischio come «altalenante» (legato agli ultimi cinque anni). È curioso constatare che, per l’81% del campione, all’apertura di nuovi canali di vendita e all’ampliamento del portafoglio prodotti corrisponde una diminuzione della percezione dell’esposizione al rischio.

I rischi non arrivano solo dal versante finanziario. I rischi finanziari sono quelli che vengono maggiormente percepiti come rilevanti, tanto che rispetto all’analoga ricerca sul 2012 il dato cresce di cinque punti, attestandosi al 58%. Di conseguenza, questa è la componente di rischio che assorbe le maggiori energie da parte delle aziende sia in termini di denaro, sia di ore di lavoro impiegate. In particolare, si registra un balzo in avanti da parte delle imprese che hanno una significativa esposizione al rischio di credito (dal 30% al 78% del campione dal 2012 al 2013) e al rischio di liquidità (dal 15% del campione nel 2012 al 42% nel 2013). Diminuisce drasticamente, invece, il rischio inflazionistico, che scende dal 53% a un 2%, in linea con l’andamento degli indicatori legati al carovita. Meno rilevante nel 2013 è il rischio operativo, che interessa il 19% delle imprese, contro il 35% nel 2012. Secondo Adolfo Bertani, presidente del Cineas, «l’elevata percezione dei rischi finanziari da parte delle Pmi è una diretta conseguenza della crisi economica, ma è fondamentale che si guardi ai rischi con un’ottica a 360 gradi per non limitare i propri orizzonti di crescita. Spesso, infatti, è stata proprio la mancata percezione degli ‘altri rischi’ a determinare la chiusura di diverse realtà industriali». Un esempio? Bertani cita le concerie della valle del Chiampo (Vicenza), un distretto fortemente ridimensionato «a causa delle conseguenze legali e di business legate alla mancata gestione del rischio ambientale a cui era esposto».