Eugenio Occorsio

C’ è chi la spending review se la sta già facendo in casa. L’Antitrust aveva otto macchine di servizio nel 2011 (una Bmw serie 5, quattro Renault Megane, una Citroen C5, due Passat) e oggi si è ridotta a una Delta, perdipiù in via di sostituzione con un’Opel Astra, una Panda e due Punto. E le spese di funzionamento sono scese da 57 a 52 milioni. Anche l’Ivass (assicurazioni) fra il 2012 e il 2013 ha autoridotto il suo budget del 2,5% da 55,6 a 54,3 milioni. L’authority per l’energia, malgrado le sia stata aggiunto il controllo sull’acqua, ha tagliato del 10% le spese nell’ultimo anno. Altre vedono ridursi il bilancio loro malgrado: perfino l’Anticorruzione è scesa da 4,6 a 4,2 milioni in 12 mesi. Insomma, nonostante Cottarelli non abbia nominato esplicitamente questa o quella da tagliare (come ha fatto con altri enti pubblici tipo Cnel o Enit), l’ombra della spending review aleggia minacciosa sulle authority, l’eterogeneo insieme di corpi amministrativi indipendenti che regola, vigila, garantisce una serie di diritti e funzioni chiave nella vita dal Paese sottraendoli al controllo diretto della politica. Il tutto per garantire imparzialità e tutela del cittadino. Ma quante sono le authority? E quali sono realmente funzionali ed efficienti? «Ci sono 19 authority, più dei ministeri, interverremo », ha tuonato il premier Renzi presentando il Def. Ma di più non ha aggiunto. È vero che sono tante, probabilmente

troppe, ma per la verità non è facile arrivare a 19 facendo un censimento ragionato delle authority. Proviamo a vedere categoria per categoria. N el grafico a fianco c’è la distinzione per funzione delle authority. Il totale dei budget supera il miliardo, ma è una somma teorica perché diverse authority si autofinanziano, altre contribuiscono all’erario con le multe, altre sono in attivo. Molte sono indispensabili: Bankitalia, Consob, Privacy, Antitrust e altre. «Affrontiamo le sfide della società digitale con un ufficio di ridotte dimensioni come personale, che deve avere alti requisiti di competenza, nonché carente di risorse economiche», accusa Antonello Soro, Garante della privacy. «Abbiamo un obbligo imposto dai trattati europei». In effetti con 130 dipendenti e un budget di 21 milioni, il rendiconto 2013 è corposo: 411 accertamenti con il supporto della Guardia di Finanza presso call center, banche dati, centrali di telemarketing, multe riscosse per 4 milioni, 850 procedimenti avviati (a fronte dai 578 del 2012), 71 segnalazioni ai magistrati per violazioni penali. Il Garante della privacy si autofinanzia solo in parte: del budget, 8,5 milioni arriva dallo Stato e 12 milioni dal fondo di perequazione fra le authority, in base al quale le più ricche aiutano le più povere. Grazie allo stesso meccanismo di solidarietà si finanzia l’Autorità di garanzia sugli scioperi, ma qui cominciano i dubbi: «Non vedo perché le sue funzioni non debbano essere svolte dal ministero del Lavoro», sostiene Carlo Scarpa, economista dell’Università di Brescia. Il ministero, peraltro, ha dimezzato da 2 a 1 milione il suo contributo. Roberto Alesse, che dell’authority, una trentina di dipendenti, è il presidente, rivendica: «Solo nel 2013 ci siamo pronunciati sulla legittimità di 2300 proclamazioni di sciopero e di questi ne sono stati effettuati 1340. La legge che noi applichiamo, la 146 del 1990, sul diritto di sciopero nei servizi pubblici, ha prodotto effetti positivi sul piano della civilizzazione del conflitto collettivo di lavoro». Ancora più nebulosi i meriti di un’altra authority, quella per l’Infanzia e l’adolescenza. Ferma restando la gravità dei problemi, sembra una sovrapposizione intanto con i lavori della magistratura, e poi delle tante associazioni private che si occupano del problema. La presiede da due anni Vincenzo Spadafora, classe 1974, già presidente della società Terme di Agnano, docente di Scienze della Comunicazione a Roma, infine perfino presidente dell’Unicef. Anche l’Agenzia delle Entrateha ritenuto di dover creare una sua authority, “Diritti del contribuente”. Ma altro non è che una serie di uffici regionali che raccolgono reclami, e in tanti sostengono che sarebbe bene – per risparmiare tutte le spese di struttura – che rientrassero nell’Agenzia stessa, che dispone ovviamente di altrettanti sportelli locali. In un momento di transizione si trova la Civit, “commissione per l’integrità amministrativa”: creata nel 2009 dall’allora ministro della Funzione Pubblica, Renato Brunetta, apertamente per dichiarare guerra ai “fannulloni” dei ministeri ma poi rimasta sempre nel vago quanto a funzioni (salvo elaborare discutibili indici di “performance e qualità”), si sta ora trasfor-mando in un’authority seria, l’Anac sull’Anticorruzione, con 4,5 milioni di budget, alla quale Renzi ha nominato Raffaele Cantone, il giudice- eroe che fa la guerra ai Casalesi e sta affrontando il non meno tortuoso percorso delle approvazioni da parte dei diversi organi del caso. E che dire dell’Agid ( Agenzia per l’Italia digitale)? Ha una storia lunga, deriva dal Cnipa, poi diventato Aipa, poi DigitPa, tutti organismi di promozione e controllo per l’automazione della pubblica amministrazione, per la posta elettronica certificata, per il digital divide. Infine da un paio d’anni ha assunto l’attuale denominazione, ma vista la sua identità quanto meno indefinita, molti ne raccomandano la confluenza nell’AgCom oppure, visto che a differenza delle altre ha compiti di promozione industriale, semplicemente il reingresso nel ministero dello Sviluppo. La stessa AgCom regolamenta l’universo della comunicazione, dai cellulari alle televisioni. E ha un senso preciso quale authority perché regolamenta un settore anticamente dominato da alcuni monopoli, «in cui non so perché gli operatori sono molto litigiosi», commenta il presidente Angelo Cardani. «Per di più dobbiamo fronteggiare un continuo ampliamento del perimetro delle attività da parte delle imprese tecnologiche grazie all’espansione dei servizi Ip, e poi le continue rivoluzioni dei vari comparti». Le risorse per affrontare questi complessi compiti comunque è di 368 unità (la pianta organica sarebbe di 419) e, così come le altre due autorità di regolazione (energia e trasporti), l’AgCom incassa un contributo dagli operatori regolati, pari in questo caso per il 2014 all’1,4 per mille dei ricavi. Il bilancio per quest’anno prevede entrate complessive per 76,2 milioni e stima spese per 83,8 milioni. Il pareggio è assicurato dagli avanzi precedenti. Anche la Banca d’Italia, ora che ha perso le funzioni di istituto di emissione, viene assimilata ad un’authoritydi controllo in materia bancaria, ed è strettamente incardinata alle assicurazioni vigilate dall’Ivass, nata due anni fa sulle ceneri dell’Isvap con caratteristiche di totale indipendenza dalle compagnie a differenza del predecessore. Il presidente dell’Ivass, 350 dipendenti, è lo stesso direttore generale di Bankitalia, Salvatore Rossi, che spiega: «Il nostro modello è quello francese, e rimarca le profonde assonanze fra banche e assicurazioni. Noi vigiliamo sui criteri di formazione delle tariffe, sulla solidità patrimoniale delle compagnie, sui rapporti con la clientela». Rimangono fuori gli accordi di cartello che spettano all’antitrust. «Ritengo soddisfacente il grado di solidità conseguito dal settore. E quanto al rapporto con i clienti, io mi sono finto spesso un cittadino danneggiato, ho telefonato al nostro call center e ho sempre avuto un ottimo risultato dalle mie proteste», racconta Rossi. Autorità “cugina” è quella sui fondi pensione, la Covip: vigila da quest’anno, con 78 dipendenti e 11 milioni di budget non più solo sui 1.491 fondi esistenti (con 6,2 milioni di iscritti) ma anche sulle casse previdenziali in coordinamento con il ministero del Lavoro. Ci sono spinte perché le sue funzioni vengano assorbite dalla stessa Ivass, ma il presidente Rino Tarelli, un ex sindacalista della Cisl, tiene duro e sostiene la «finalità sociale del settore, sancita dai principi costituzionali e non accomunabile a quella propria dei mercati finanziari». Finalità meno sociali ha l’Avcp, che vigila sui contratti pubblici. Ha una storia controversa: creata all’indomani di Tangentopoli per domare il male della corruzione nelle gare, presieduta da Sergio Santoro, giudice amministrativista e presidente di sezione del Consiglio di Stato, pur avendo nei soli ultimi tre anni presentato 20 denunce alla Procura e 47 alla Corte dei Conti, non sembra aver centrato il suo obiettivo. Almeno di questo è convinto il ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, che ne ha chiesto a viva voce la chiusura senza però dare garanzie che la vigilanza migliorerebbe. Ci sono authorityche non gravano sui bilanci pubblici. «Noi garantiamo – spiega Guido Bortoni, presidente dell’Autorità per l’energia elettrica, il gas ed il sistema idrico che gli investimenti e la gestione dell
e infrastrutture vadano davvero a beneficio del consumatore. Creiamo benchmark, obiettivi minimi, criteri di salvaguardia delle aree svantaggiate e formazione delle tariffe». Su 45 miliardi di fatturato delle aziende del settore, metà è influenzato dalle decisioni dell’authority, il che basta a spiegare l’importanza dell’indipendenza dalla politica. Come l’AgCom e la neocostituita Autorità dei trasporti, si finanzia con i contributi dalle imprese vigilate: quest’anno ha chiuso in pareggio un bilancio di 100 milioni tondi grazie agli avanzi di 20 milioni precedenti. C’è infine la regina di tutte le authority, l’Antitrust. «Il nostro presidio è essenziale per la competitività del Paese – afferma il presidente Giovanni Pitruzzella – e il benessere dei consumatori. Garantire la concorrenza dagli abusi e dalle intese illecite aumenta la vitalità dell’economia e dà spazio a nuove energie». Un’attività che è in rilancio: fra gennaio e marzo di quest’anno le multe per violazioni alle norme di concorrenza hanno già superato con 184,5 milioni tutte quelle comminate l’anno scorso (112,8 milioni). E quelle per la tutela dei consumatori sono state pari a 5,4 milioni contro 7,6 dell’intero 2013. Le multe peraltro vanno alla fiscalità generale: l’Antitrust, che ha 250 dipendenti e 60 milioni di budget, si finanzia invece con i contributi dello 0,06 per mille (era lo 0,08 fino all’anno scorso) del fatturato delle società con ricavi superiori a 50 milioni. È anch’essa un’authority “ricca” che deve finanziarie quelle “povere”. Tutte, finché restano così tante.