di Gigi Giudice

E’ mancato nella notte del 25 aprile Adolfo Frigessi di Rattalma. Chi lo ha conosciuto sa come il fatto di essere figlio di Arnoldo Frigessi, presidente della Riunione Adriatica di Sicurtà dal 1919 al 1950, succedendo al padre che lo era stato dal 1890, non influiva minimamente.

Alla Ras aveva percorso una carriera ovviamente brillante, con la responsabilità delle rete commerciale.

Con gli agenti era stato capace di stabilire un rapporto di empatia e collaborazione inusuale rispetto ai competitori. Si preoccupava di capire, di condividere i problemi. Al punto che i conformisti (“i caporali”, come diceva Totò) gli rimproveravano di essere un po’ troppo “tenero” e condiscendente.

Una delle sue massime sorridenti preoccupazioni era quella di tenersi quotidianamente informato su quanto accadeva sui mercati di Francia, di Germania, d’Inghilterra (la Ras era internazionale e alla fine della carriera Frigessi, quando già erano arrivati i tedeschi di Allianz a controllare la compagnia, venne nominato condirettore generale per gli affari esteri). Conosceva più lingue e consultava una quantità di riviste specializzate per cogliere le novità e cercare di riprenderle. Fu fra i fondatori del “Club degli Assicuratori” che aveva come scopo appunto il monitoraggio delle esperienze più significative e innovative. Era sempre presente alla Semaine Internationale du Marketing dans l’Assurance, che si teneva ciclicamente, a Parigi, e da dove tornava con mille dossier, rapporti dai diversi paesi, su cui organizzava incontri e dibattiti. Il marketing assicurativo, in quei ormai lontani anni Settanta/Ottanta era materia da carbonari.

Arrivato all’età canonica dell’uscita dal lavoro, continuò a battersi per contribuire, a livello non solo di confronto ma anche di pratica, convinto che fosse indispensabile migliorare la efficacia della presenza dell’assicurazione nell’ambito della società.

Si è segnalato come autore di vari scritti, in cui esponeva con stile e vigore le sue visioni e convinzioni.

Nel contempo, finalmente, poté dare pubblico sfogo anche a quella sua vocazione poetica che aveva coltivato da sempre. Nel 1992 pubblicò “Labbra” (con prefazione del celebre esegeta e grande amico Cesare Segre, mancato poche settimane fa), cui seguirono altre raccolte, tra cui “La macchia di Cartesio”, nel 1994, quindi “Lei” nel 2000,“Un cielo senza porte”(nel 2002) e “Poesie con Trieste e senza” (2006). Con “L’Attesa” pubblicato nel 1997 (per la preziosa collana “All’Insegna del Pesce d’Oro” di Vanni Scheiwiller) figurò tra i poeti segnalati al Premio Viareggio.

E proprio da questa raccolta traggo il testo in cui Adolfo Frigessi traccia il proprio autoprofilo, di una vicenda segnata da una continua attesa. Attesa che lui sapeva riempire di introspezione, di eleganza e grazia, di inesausta curiosità, di coinvolgenti entusiasmi.

Notizia autobiografica

Nell’anno 1922 del fascismo italiano, sono nato nella città dell’Impero Austro-Ungarico, Trieste redenta. La famiglia era un incrocio di ebrei askenaziti e sefarditi, filo-austriaci e irredentisti. Mi fu data un’educazione laica, illuminista.

Cominciai a scrivere poesie dopo i venticinque anni. Prima, la vita stessa, l’infanzia e la giovinezza, erano poesia. La governante, quando avevo sette, otto anni, mi leggeva Faust e Schiller.

Nelle scuole italiane, i professori mi fecero leggere Dante, Petrarca, i poeti dell’Ottocento. Lessi D’Annunzio (ricordo il giorno della sua morte) e, più tardi, Saba e Montale.

Avevamo una casa di campagna in Friuli, con un grande giardino ove si correva in bicicletta e nei sogni. Un portone di ferro ci separava dalla miseria di Medea – il nome del luogo -, dai bambini poveri, dalla polvere e dalla religione. Vivevo nei misteri.

Le rivoluzioni, le fughe, la storia che imperversava, non scrivevo poesie. “La storia correva per la casa con vestiti a brandelli …” Il caos della vita e della storia soffocavano la scrittura.

L’infanzia e la giovinezza furono tutte all’insegna della perenne attesa (e così sarebbe stato per la senilità). “Furono le notti dell’attesa, – nel sogno fu sospesa – l’adolescenza …”. “…. attendevo che nascesse – un’altra anima – che illuminasse il mio pensiero”. E la scrittura di Elio Vittoriani mi fu vicina nell’attesa: “Piedi gonfi e giornali – erano le fatiche degli anni …”

Il mito del Padre viene elaborato in tre poemetti. “Un silenzio felice” è il più antico e raffigura il ritorno del padre dall’ufficio a casa ove lo attendono i figli. “L’amplesso paterno” è ispirato dal ritorno del padre dai lunghi viaggi nell’Europa orientale, accolto dagli amplessi dei figli e dal “fiore coniugale”. “Un’educazione sentimentale anni trenta, Trieste” racconta il dramma dell’irresistibile avvicinarsi della guerra, come è vissuto da un grande uomo d’affari in quegli anni a Trieste. Il figlio, che è l’autore, è incaricato dal padre di leggergli ad alta voce, ogni mattina, gli articoli più importanti del giornale, mentre egli fa la prima colazione. Al dramma storico si intreccia l’educazione sentimentale del figlio. Il poemetto vuole essere una testimonianza di storia triestina ed europea, rivissuta da un bambino.

Le poesie su Trieste, la città della mia vita, sono state scritte e riscritte negli anni. Quanto concerne i testi di “Città”, “La morte giace” è ripescato da una serie dedicata a Vienna, degli anni Cinquanta; “Il sonno della ragione” e “Grattacieli di Mosca” sono assaggi minimi di testi scritti prima della caduta del muro di Berlino. Le poesie su Praga e quelle di “Il sogno ebraico” risalgono agli anni Settanta e Ottanta.

 

* A nome della redazione di Assinews porgo le più sentite condoglianze alla moglie Maria Luisa e ai figli Marco e Arnoldo.