Massimo Giannini

Scusate l’iperbole linguistica. Ma stupisce che un empatico televenditore come Renzi abbia dato a un cinico truffatore come Berlusconi l’opportunità di farsi dare del «simpatico tassatore». L’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie dal 20 al 26%, di per sé, non avrebbe dovuto scandalizzare nessuno. Il riallineamento ai livelli impositivi europei, in una manovra del genere, è oggettivo. Ed è anche equo, sul piano della giustizia redistributiva, che una parte del gettito derivante dall’aumento della tassazione sui capital gains possa servire come copertura della riduzione dell’Irap, o persino del bonus da 80 euro per i lavoratori dipendenti a più basso reddito. Ma tra l’enunciazione teorica (questa è una «scelta di sinistra») e la traduzione pratica (chi pagherà che cosa) si apre l’abisso. L’abisso è prima di tutto qualitativo. Il giro di vite sulle cosiddette «rendite finanziarie» è un coacervo di contraddizioni. Si salvano generosamente i Bot, che pure di rendita ne generano eccome. E si colpiscono impietosamente tutte le altre forme di risparmio, non solo le plusvalenze su azioni e obbligazioni, ma anche gli interessi sui conti correnti e i depositi postali, i fondi d’investimento e il risparmio gestito. A regime, il totale delle entrate attese dall’aumento dell’aliquota al 26% ammonta a ben 3,037 miliardi di euro. Di questi, quasi 800 milioni arrivano dal prelievo sui rendimenti dei conti bancari e dei depositi postali. Un valore economico, non solo simbolico. Se è vero – come dice il guru renziano Filippo Taddei – che per molti risparmiatori l’aggravio equivale al costo di una tazzina di caffè (la maggiore imposta va da 1 euro in più per i depositi da 12 mila euro a 175 euro per quelli da 250 mila euro) è altrettanto vero che, se distribuito sul totale della platea dei correntisti italiani, di caffè nei prossimi tre anni ne scorrerà a fiumi. Secondo i calcoli degli esperti, se al sacrificio richiesto alle rendite finanziarie si somma l’insieme dei rincari varati nell’ultimo anno (dalla Tobin Tax alla «patrimonialina» sui fissati bollati) il risultato è una discreta batosta per tutti i risparmiatori: dal primo luglio, con un’ipotesi di rendimento dell’attività finanziaria al 3%, la pressione fiscale passa dal 30 al 36% per le azioni, dal 26,7 al 32,7% per le obbligazioni societarie e per i fondi comuni, dal 26,9 al 32,9% per i conti bancari e postali. E se a questo si aggiunge l’abisso quantitativo (il fatto cioè che nella manovra renziana alla fine i tagli di spesa incidono meno del 44% e gli aumenti di imposta per il restante 56%) il quadro è completo. Ancora una volta, purtroppo, la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni. Solo una preghiera: abbiate un po’ di pietà, per l’Italia che risparmia. In molti casi è la stessa che soffre, e che aspetta con ansia la prossima busta paga di maggio. m.giannini@repubblica.it