ANDREA GRECO

Il bando ai doppi incarichi nella finanza italiana è una rivoluzione appena iniziata. Che mostra alcuni effetti immediatamente, ma i più notevoli li fa intravedere nel medio termine. Sia sul livello concorrenziale del sistema – numeri e fatti dicono che i servizi finanziari sono tra i più costosi e scadenti d’Europa – sia negli intrecci proprietari, dove potrebbero vedersi soluzioni di antichi nodi, a partire da quello che lega Unicredit a Mediobanca e questa a Generali. Tre colossi della finanza nazionale che si schiacciano dall’alto di una catena partecipativa, mentre svolgono attività competitive sugli stessi mercati, nel paese e fuori. Forse, tra pochi anni, ricorderemo questa legge come il big bang di un sistema che, di suo, fatica sempre più a reggersi. Specie nei gangli che riguardano le partecipazioni bancarie nel risparmio gestito, e quelle di Piazzetta Cuccia su Trieste.
La filosofia della norma è apparsa da subito manichea: cinque righe in croce il famigerato articolo 36 del decreto Salva Italia per bandire ogni doppio incarico tra consiglieri, manager, sindaci di banche, assicurazioni o finanziarie. Qualcuno, tra le emittenti, l’ha definita legge “contra societatem”, “talebana”. Sicuramente l’esecutivo ha espresso determinazione immediata nell’arginare un male antico del sistema finanziario, per accrescerne la concorrenza ed evitare i rischi collusivi derivanti dalle diffuse commistioni di poltrone e affari. Su questo piano, la sensibilità del presidente del consiglio e del suo sottosegretario Antonio Catricala, figure con esperienze rilevanti nell’Antitrust europeo e nazionale, è un leitmotiv. E le linee interpretative della legge, benchè si siano fatte attendere tanto da creare suspance tra i vigilati, sono giunte ineccepibili e rigorose, così nell’ultima settimana un centinaio di protagonisti – ma sono coinvolte ben 1.023 cariche di centinaia di società hanno lasciato ambite poltrone “laterali” per concentrarsi su una sola, in un chiarificatore coming out.
Giovanni Bazoli, Francesco Gaetano Caltagirone, Ennio Doris, Alberto Nagel, Marina e Pier Silvio Berlusconi, Vincent Bolloré, Carlo Pesenti, Luigi Maramotti, Fabrizio Palenzona, Roberto Ruozi, Gabriele Galateri, Giuseppe Camadini, Angelo Casò, Jonella Ligresti…sono solo alcuni dei big che hanno dovuto fare passi indietro, e basterebbero a scrivere un bigino di storia finanziaria tricolore trentennale. Ognuno, con gradi diversi di potere, competenze, carisma, ha offerto contributi determinanti a modellare il sistema com’è. Si pensi al ruolo di Bazoli nel network della finanza “lombarda”, specie nel polo bresciano che ha in Ubi banca e la finanziaria Mittel due perni. L’arretramento parziale di tali figure produrrà effetti automatici di ricambio e mobilità nei vertici societari; non solo fra protagonisti, anche per i loro consulenti di riferimento (spesso ormai “professionisti dei cda”), non meno preziosi. Tra questi Angelo Casò, storico sindaco di Mediobanca e oggi suo consigliere, mandato a presiedere la Milano Assicurazioni in una fase delicata di riassetto del gruppo Ligresti (azionista e forte debitore di Mediobanca), e ora in ritirata ope legis.
Proprio il pasticciaccio PremafinFonsaiMilano mostra la vulnerabilità e i limiti del capitalismo di relazione germinato in mezzo secolo attorno a Enrico Cuccia nella globaliità. Quanto visto giovedì prelude a una sorta di battaglia finale tra il salotto buono e l’Antitrust, che da un decennio contesta il controllo di fatto e pratiche poco concorrenziali tra Mediobanca e le sue parti correlate (ben 1.200 secondo quanto dichiarò a fine 2010 l’allora presidente Cesare Geronzi). Il provvedimento, zeppo di caveat, con cui il Garante ha avviato l’istruttoria sull’integrazione UnipolFonsai, sospendendone ogni passo per 45 giorni, mostra chiaramente il vero campo dello scontro: “I legami rilevanti tra Mediobanca e Generali – vi si legge sono stati oggetto di precedenti provvedimenti nei quali è stata accertata l’esistenza di un controllo di fatto, che allo stato non si dispone di elementi per sostenere sia venuto meno”. Allinearsi all’Antitrust sul “controllo di fatto” avrebbe evitato a Nagel Vinci e Bolloré di dover optare tra i ruoli nella merchant e quelli nel Leone. Ma l’ipotesi, spolverata da qualche legale di parte, è stata scartata da Mediobanca, che in passato la contestò anche in tribunale al Garante. Certo il fatto che il finanziere bretone abbia preferito lasciare il cda della merchant per restare in quello di Generali in cui quasi non ha azioni – porta acqua al mulino delle tesi dell’authority; nè i soci francesi hanno mai nascosto di stare in forze in Mediobanca per la sua natura di holding triestina, più che di banca d’affari. Del resto Bolloré continua a controllare l’investimento italiano sedendo nel patto parasociale di Mediobanca (altra invenzione cucciana per ridurre gli oneri del controllo tra società, ma con l’antipatico annesso di limitare la concorrenza in un sistema tipo simul stabunt simul cadent). 
Finchè non si bandiranno i patti di sindacato fotocopia e gli intrecci azionari tra concorrenti, la rivoluzione sognata dall’art. 36 non sarà realizzabile, dicono i paladini del mercato. Ma in una fase tanto turbolenta, l’istanza si potrebbe scontrare con la necessaria stabilità – su cui vigila la Banca d’Italia, che l’ha cara degli assetti della grande finanza italiana, ormai ridotta a capitalizzazioni così modeste che il rischio di scalate ostili, specie straniere, non è teoricamente assente. Non solo il governo sembra determinare un “cambio di linea” verso il salotto buono. Anche l’introduzione dei criteri di Basilea 3, fra sei anni, potrebbe indurre un alleggerimento al 13,24% che Mediobanca detiene in Generali. Infatti con la futura contabilità l’assorbimento di capitale delle partecipate sarà maggiore, e l’attuale quota limerebbe di almeno un punto il patrimonio Core tier 1 della banca d’affari (oggi all’11%). Da nove anni alla guida, l’ad Nagel ha detto più volte agli investitori di voler privilegiare l’attività bancaria (a scapito di quella di holding) e l’estero al paese d’origine. Ora la realtà gli dà l’occasione, ma forse l’incombenza, di convincere i suoi azionisti e realizzare quello che ha predicato per anni. Oppure di esporsi al rischio che le scelte le facciano altri: il governo, i competitor, il mercato.