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Perché così poco ambita?
Autore: Clemente Fargion
ASSINEWS 230 – aprile 2012
L’importanza del rischio e la mancata risposta dell’utente della polizza
Ogni azienda ha una sua propria soglia di sopportazione di fronte ad una perdita economica o patrimoniale imprevista e qualora potesse contare su adeguati margini di indebitamento residuo, potrebbe innalzare sensibilmente tale soglia, mediante il ricorso al credito. Tuttavia, affinché ciò sia possibile, è necessario che l’azienda possa contare sulla regolarità del proprio cash-flow, unica garanzia della sua capacità di sostenere in un arco di tempo opportuno il frazionamento della perdita, senza intaccare il patrimonio.
L’interruzione di attività per un’azienda è dunque qualcosa di più di un semplice danno: essa può avere un effetto invalidante sulla propria capacità di recupero e può quindi essere considerata, a buona ragione, il più temibile dei rischi.
Per tutelare le aziende contro questo rischio, le compagnie offrono la polizza danni indiretti, ma solo a condizione che esista una polizza contro i danni materiali suscettibili di innescare l’interruzione di attività. Perciò sarebbe da attendersi una corsa alla sottoscrizione delle polizze incendio e all risks, che le aziende acquisterebbero, superando la nota ritrosia della nostra utenza nei confronti delle assicurazioni, pur di avere il lasciapassare per la polizza che le tutela contro il rischio più temuto: l’interruzione di attività.
Invece i dati statistici del mercato italiano ci dicono che meno del 10% degli assicurati che abbiano sottoscritto una polizza sui danni materiali usufruisce dei benefici di una polizza danni indiretti. Questo dato non tiene conto della forma indennità aggiuntiva a percentuale, che sfugge ad una osservazione statistica, in quanto presente come partita all’interno della polizza danni materiali. È presumibile che se fosse possibile far emergere anche questa componente, l’indice di diffusione della garanzia crescerebbe sensibilmente.
Se limitiamo l’analisi statistica del nostro mercato ai clienti gestiti da brokers, la percentuale di chi ha una polizza danni indiretti, fra coloro che ne avrebbero necessità, sale al 40%. Una percentuale certamente più importante rispetto alla media generale, ma ancora molto distante dai livelli prossimi alla saturazione del mercato (attorno al 95%) che si registrano in Germania, dove il tasso di brokerizzazione è molto più alto del nostro. Evidentemente, nel caso dell’Italia, la presenza del mediatore spiega solo in parte questa differenza di comportamento della clientela.
Ascoltando i pareri di operatori del mercato di varia estrazione, si riscontra, a livello locale nel territorio, una diffusa riluttanza non già dell’utente, ma di chi deve vendere la polizza, con la motivazione che è troppo complicato gestire i sinistri e si rischia di guastare i rapporti con i clienti. In realtà, vi sono anche motivazioni, non dichiarate, legate al timore di non essere in grado di rispondere ad eventuali domande del cliente circa la determinazione della somma assicurata o altri dettagli tecnici.
Questo sicuramente non accade per i grossi gruppi gestiti da broker di alto livello, perché in quei casi chi propone la polizza sa di poter contare sul supporto tecnico di uno staff qualificato che spesso prende parte all’operazione commerciale. In un simile contesto, la presentazione dei servizi e dei benefici della polizza danni indiretti risulta convincente, laddove il tecnico per primo ne è sinceramente convinto, riuscendo così a trasmettere al cliente un senso di appetibilità della polizza.
La polizza danni indiretti e il suo percorso evolutivo
La polizza danni indiretti ha seguito una evoluzione guidata dall’intento di produrre un calcolo dell’indennizzo sempre più aderente al danno reale. Infatti, si è passati dalla forma a percentuale, del tutto avulsa da una effettiva quantificazione del danno, a quella a diaria, per la prima volta legata al reddito dell’impresa, ma rigidamente vincolata alla durata del fermo, unico parametro di misura del danno. Questa rigidità la rendeva insensibile ai fattori di stagionalità della produzione, di cui le forme anglosassoni giunte sul mercato negli anni ottanta, invece vantavano di poter tener conto.
L’americana gross earnings è passata sul mercato come una meteora, ma la britannica loss of profits, più sofisticata della prima, anche se basata sulla medesima impostazione, ha lasciato il segno nella recente storia del costume assicurativo. In questa escalation qualitativa, il calcolo dell’indennizzo si doveva effettuare secondo un modello sempre più complesso, affinchè fosse in grado di rappresentare il maggior numero possibile di variabili e in questo senso la loss of profits ha forse rappresentato un apice. Infine la forma a margine di contribuzione, ha segnato una inversione di tendenza verso una maggiore libertà di misurazione del danno. Pur ribadendo alcuni principi fondanti della loss of profits, si è liberata di alcuni vincoli rivelatisi controproducenti, come vedremo più avanti.
La loss of profits si è presentata nelle due forme, per differenza e per somma. La prima ha avuto il merito di esprimere il concetto del danno indiretto(*) in modo più intelligibile, che si può così sintetizzare:
la perdita di fatturato da mancata vendita per indisponibilità totale o parziale dell’apparato produttivo colpito da danno materiale, per il tempo necessario al suo ripristino, però, al netto delle spese che la stessa fermata della produzione ha consentito di risparmiare.
La perdita di fatturato è la quota di fatturato che la fermata ha impedito di realizzare. Essa rappresenta la perdita lorda.
I costi risparmiati, in quanto algebricamente dedotti dalla perdita lorda, per ottenere la perdita netta, vengono definiti costi non assicurati. Ma quali sono i costi che l’azienda non sostiene più con il blocco della produzione? La risposta corretta sarebbe … dipende!
Però la Loss of Profits, che non ammette indeterminazioni, ha escogitato un modello di riferimento costruito partendo dal fatturato lordo, sommato algebricamente alla differenza di magazzino, e da esso detrae tutti i costi che l’azienda non sostiene se non produce, che poi definirà costi non assicurati che, in prima istanza vengono lasciati alla decisione del cliente, ma vi sono molti casi nei quali lo stesso cliente non ha le idee molto chiare, magari perché non comprende al volo i meccanismi della polizza. Non è escluso che quando si rende conto dell’incompetenza contabile dell’interlocutore esperto di assicurazioni, si trovi spaesato a dover fornire dei dati secondo una logica che gli è estranea. Comunque sia, in assenza di risposta da parte del cliente, i dati mancanti si risolvono andando a consultare il prontuario tramandato oralmente, costruito in base ai ragionamenti tipici che si insegnano nella formazione tecnica, di cui vediamo qualche esempio:
Se l’azienda non produce:
• non acquista materie prime, non consuma energia, non effettua trasporti perciò i relativi costi sono al 100% non assicurati e quindi detratti dalla somma assicurata;
• non sostiene le spese di mano d’opera se non per il 20% a proprio carico, in quanto il restante 80% è a carico della Cassa Integrazione;
• continua, invece, a sostenere gli oneri finanziari, gli ammortamenti, le spese per gli affitti, ecc, che non risentono dell’interruzione.
Avendo sperimentato la formazione, dapprima come allievo, poi come formatore, ho avuto modo di rendermi conto che questi ragionamenti appaiono logici e convincenti a chi non abbia almeno delle conoscenze di base. Per talune voci si faceva ricorso ad espedienti d’arbitrio, come le spese per prestazione di servizi, considerate fisse al 30% che, secondo voci tramandate oralmente, rappresentava una media statistica, oppure al salomonico 50% delle spese diverse o spese generali, scelto per minimizzare l’errore.
I costi che realmente l’azienda non sostiene in caso di fermata, non sono mai gli stessi, ma cambiano da caso a caso per qualità e per quantità, in funzione della durata dell’interruzione e, spesso, anche del momento dell’anno in cui essa ha inizio. Le percentuali sopra viste si riferiscono, nell’intento ci chi le ha stabilite, ad una fermata di un anno dell’in tero impianto produttivo, ma in realtà esse sono pensate in una situazione di assenza della produzione, in una forma statica, sospesa fuori del tempo, assai diversa dallo scenario complesso e multiforme dei danni e dei disagi che si verificano in concomitanza e a seguito di una interruzione prolungata dell’attività. Anche però, volendo ammettere che un siffatto calcolo rappresenti la perdita economica di una fermata di 12 mesi, la proporzione con il fatturato perduto, denominata rapporto di profitto lordo, non sarà mai la stessa per interruzioni parziali o di minore durata. La polizza loss of profits invece lo adotta come parametro fisso da applicare alla perdita stimata di fatturato lordo, in qualsiasi caso, a prescindere dalla gravità del danno e dalla durata dell’interruzione. Può sembrare un ragionamento superficiale, ma in realtà il parametro RPL, venendo fissato sulla base annua, garantisce alla compagnia assicuratrice un limite superiore alla sua esposizione. Infatti, gli altri costi, quelli non risparmiati, possono essere indennizzati solo se documentati.
Si può obiettare che la scelta, o almeno l’approvazione, dei costi da detrarre dalla somma assicurata è di esclusiva pertinenza dell’assicurato. Vero. Ma è vero anche che molti imprenditori scelgono di calcare la mano sui costi non assicurati, quando capiscono che è un eccitante strumento nelle loro mani per tenere bassa somma assicurata e quindi il premio. Per esperienza personale, posso dire che anche mettendoli in guardia dal rischio di avere il risarcimento tagliato, molti clienti restano dell’idea che intanto si risparmia sui premi, che non è poco.
Rimane il fatto che l’indennizzo calcolato secondo la LoP sarà sempre assai distante dalla realtà, guarda caso, a sfavore dell’assicurato. Infatti, nel caso di fermate brevi e parziali, il danno corrisponde, sul piano qualitativo alla perdita di fatturato (sempreché la durata non sia stata così breve da non aver avuto il tempo di creare una perdita di fatturato) al netto dei costi non sostenuti, ma questi sono pochi ed esigui, mentre la loss of profits considera in blocco i costi non assicurati su una base annua, penalizzando così l’assicurato.
Man mano che la durata della fermata si allunga, l’elenco dei costi non sostenuti tende a rassomigliare sempre di più a quello che genera il RPL, ma non v’è dubbio che diventa sempre più aleatoria la stima del fatturato lordo perduto.
Quando, poi, la durata dell’interruzione si approssima ai dodici mesi, avremo un rapporto di profitto lordo quasi veritiero, da applicare però ad un danno che rischia di non essere più indennizzabile, vista l’alta probabilità che l’azienda non ce la faccia a ripartire. Perciò, quando diciamo che il fatturato annuo, al netto dei costi diretti di produzione che in caso di fermata si sospenderebbero, rappresenta la perdita economica derivante dalla fermata di un anno, facciamo una pura astrazione matematica. Col perdurare della interruzione intervengono fenomeni collaterali che quel calcolo non è più in grado di contemplare. È un po’ come dire che se un uomo, camminando a piedi, percorre in un‘ora 4,5 chilometri, in 10 ore ne percorre 45 e in 100 ore ne percorre 450. Il calcolo, sul piano matematico, non fa una piega, ma non tiene conto del fattore affaticamento e delle necessità fisiologiche incompatibili con una marcia continuativa per una tale durata.
L’impossibilità di essere realisti
La polizza loss of profits si basa su un altro presupposto arbitrario: che le vendite siano una conseguenza meccanica della produzione, come fossero l’output finale del processo produttivo.
È quanto in effetti accade in presenza di una domanda stabilizzata da parte di una clientela fidelizzata e quotidianamente soddisfatta. Tuttavia, anche con questi presupposti, la realtà si discosta parecchio da questa simulazione astratta di fronte ad una interruzione e soprattutto alla successiva ripresa della produzione. In altre parole, il modello è realistico fin quando non capita il sinistro!
La distanza del modello assicurativo dalla realtà non è, però, accidentale e non è nemmeno dovuta ad una mancanza di realismo da parte di chi abbia redatto la polizza. Le ragioni sono più profonde e per capirle dobbiamo guardare sotto una lente di ingrandimento i punti di vista delle due parti contraenti.
Come si è già accennato poc’anzi, l’azienda vede il danno da interruzione di attività come la causa di una possibile perdita senza ritorno di una parte di clientela, a causa della sua assenza dal mercato ed è altresì consapevole che se l’assenza si protrae oltre un certo limite, il suo rischio diventa quello di chiudere l’attività. La perdita di clienti e la chiusura definitiva sono entrambi eventi che appartengono alla sfera del rischio di impresa.
L’assicuratore si propone invece di tutelare l’assicurato dalle conseguenze dannose di un evento accidentale e contingente rispetto alla gestione dell’attività.
Il danno indiretto ha la sfortuna di trovarsi sulla linea di confine fra i due settori di competenza, laddove la causa scatenante è di specie assicurativa, ma la conseguenza ultima appartiene al rischio di impresa. L’assicuratore non si prende carico della perdita di clienti dell’assicurato, ma v’è senza dubbio un nesso di causalità tra l’interruzione delle vendite e la perdita di Clienti rivoltisi altrove per mancanza dell’abituale fornitura dovuta all’assenza forzata dal mercato.
A tal proposito, il valore aggiunto della loss of profits rispetto alla gross earnings è proprio quello di concedere all’assicurato, dopo la ripresa dell’attività, l’ulteriore periodo di recupero del trend commerciale ante-sinistro, ma in sostanza lo fa col presupposto che il recupero sia frutto del persistere della produzione e che se ciò non accade, lo si deve all’incapacità dell’imprenditore. Può anche esservi una componente di incapacità imprenditoriale, ma sarebbe comunque una concausa del mancato ritorno alla normalità, ma non del verificarsi della perdita, palesemente cagionata da un danno assicurabile.
I maggiori costi: una tutela dell’assicurato o della compagnia?
A ciò aggiungiamo che la loss of profits prevede la rifusione dei maggiori costi sostenuti dall’assicurato con lo scopo di contenere la perdita economica da interruzione di attività. L’analogia con le spese di salvataggio, disciplinate anche dal codice civile è una tentazione forte, sebbene vi siano autorevoli pareri che escludono di poter ascrivere a spese di salvataggio i maggiori costi. Il dibattito resta tuttavia aperto.
Mentre il codice civile (per il vero con riferimento ai soli danni materiali) sancisce il diritto dell’assicurato alla rifusione delle spese di salvataggio anche se sommandole al danno residuo si supera la somma assicurata, (Art. 1918 C.C. secondo comma) nel caso dei danni indiretti, non solo non si consente tale licenza, ma addirittura si pone la condizione che i costi aggiuntivi sono riconosciuti col massimo della perdita evitata.
In realtà i due concetti hanno in comune la prerogativa di limitare un danno ma, a differenza delle spese di salvataggio del danno da incendio, palesemente finalizzate a limitare il danno, questa regola tutela più verosimilmente l’assicuratore dal rischio di veder aumentare la sua esposizione, senza con ciò proteggere l’assicurato dal rischio di subire un danno maggiore.
La tesi degli esperti secondo i quali le spese di salvataggio in caso di incendio e i maggiori costi in ambito di danni indiretti siano due concetti nettamente distinti, sembrerebbe giustificare questa disparità di trattamento da parte dell’assicuratore.
La priorità strategica dell’assicurato, di fronte ad una situazione di crisi che rischia di tenerlo fuori mercato per un periodo breve o lungo che sia, non è quella di contenere la perdita economica da mancata vendita, che casomai avrà la connotazione consuntiva della conta dei danni, ma piuttosto quella di abbreviare come può la durata della sua assenza dal mercato ed è fuori di dubbio che, pur di conseguire tale obiettivo, sia disposto a spendere senza guardare al risparmio, andando così a sforare il limite che tutela l’assicuratore. Il problema prioritario che l’assicurato cerca di evitare o contenere, è al di fuori della competenza assicurativa, ovvero è un danno non assicurabile. È del tutto legittimo che l’assicuratore non abbia interesse a rifondere un costo che evita o limita una perdita non assicurata, ma tutto ciò dà corpo al sospetto che di fronte al problema dell’interruzione di attività, assicurato e assicuratore vivano due realtà parallele non comunicanti fra loro.
Questi aspetti tecnici probabilmente sfuggono all’analisi dell’assicurato, ma i loro effetti si manifestano in tutta la loro inopportuna evidenza in caso di sinistro e fanno una pubblicità purtroppo negativa a questa polizza, ed il rischio è che chi ne abbia subìto l’esperienza faccia opera di dissuasione verso nuovi potenziali clienti, e trovano terreno fertile nella diffidenza esistente già in forma cronica nei confronti delle assicurazioni.
La polizza a margine di contribuzione: una ventata di novità
L’introduzione della forma più recente a margine di contribuzione, ha apportato diversi benefici, fra i quali citiamo i più significativi:
1) l’uso di un termine per indicare la perdita economica da interruzione di attività che, pur non facente parte della terminologia tecnico-bilancistica, ha per lo meno il pregio di non essere palesemente errato come il profitto lordo;
2) l’abbandono del deleterio vincolo al rapporto di profitto lordo;
3) la rinuncia, almeno formale, a definire i costi non assicurati;
4) il ritorno ad una maggiore libertà nel calcolo del danno.
Si può dire che il secondo e il terzo punto siano concatenati sul piano del principio ed il quarto ne è il corollario, ma la definizione del margine di contribuzione riportata in polizza elenca nominativamente i costi variabili da detrarre dal fatturato. Ciò non è molto diverso che dichiararli non assicurati, anche se la loro elencazione discorsiva potrebbe lasciare lo spazio ad una interpretazione non limitativa né vincolante dell’elenco stesso. Sebbene l’indeterminazione terminologica sia un’arma a doppio taglio, l’abolizione di questo fastidioso paletto creato dalla loss of profits risulta, in definitiva, più efficace di quanto ci si possa attendere.
Onore al merito di chi si sia fatto carico della stesura di questo testo, che certamente ha rimosso delle importanti cause di errore nel calcolo. Tuttavia, malgrado i poderosi interventi di riforma, permane una oggettiva difficoltà di misurare il danno nella sua globalità, che nemmeno la nuova forma margine di contribuzione è riuscita a superare.
La polizza danni indiretti e il valore intero: un connubio inviolabile
Nonostante i progressi apportati dalla polizza in forma a margine di contribuzione, permane comunque un tarlo inamovibile a causa della sua impossibilità conclamata di abbandonare il criterio di assicurazione a valore intero.
So perfettamente di violare un tabù della tradizione assicurativa, ma sono del parere che la polizza danni indiretti, avendo un rapporto simbiotico a senso unico con la polizza property cosiddetta di riferimento, sia stata assegnata al ramo danni e quindi al criterio del valore intero più per proprietà transitiva, che in ossequio ai suoi connotati caratteristici.
Volendo applicare il criterio del valore intero alla polizza danni indiretti, accade che:
A) ciò che equivale al concetto di pre-esistenza della polizza danni materiali dovrebbe essere il margine annuo che l’azienda avrebbe conseguito se non avesse avuto il sinistro;
B) la somma assicurata corrisponde alla perdita teorica di margine se l’azienda stesse ferma per un anno (nella maggior parte dei casi non è un’affermazione veritiera).
La stima di cui in A) può risultare attendibile in caso di interruzioni brevi e a patto che l’effetto invalidante del danno materiale sulla capacità produttiva sia lieve, ma si rende sempre più arbitraria e meno dimostrabile (aggiungerei meno oggettiva) al crescere della durata della sospensione di attività, soprattutto se si considera che si tratta di una stima discrezionale fatta dal perito.
Per contro, la somma assicurata, termine di paragone e di riferimento del calcolo del danno, rappresenta una situazione che spesso non ha riscontro con la realtà. In definitiva, l’applicazione del criterio del valore intero ai danni indiretti genera una evidente iniquità.
L’assicuratore ne è consapevole, dal momento che la polizza a margine di contribuzione, dopo aver imposto, quale condizione di operatività, che la somma assicurata non sia inferiore al margine di Contribuzione realizzato nell’esercizio precedente, concede, in deroga all’art. 1909 C.C., l’ammissibilità della sovra-assicurazione e sulla somma sovra assicurata concede una deroga alla proporzionale fino al 30%. Di fatto, adottando questi accorgimenti, la polizza a margine di contribuzione, tende a rendere il criterio del valore intero assai difficilmente applicabile nella sostanza, pur rispettandolo nella forma e pertanto non negandone la vigenza formale. Tra l’altro, l’ammissibilità della sovra-assicurazione dimostra che implicitamente si riconosce che la cosa assicurata con la polizza danni indiretti non ha la stessa concretezza dell’oggetto materiale assicurato con la polizza danni, ovvero il presupposto primo per l’applicazione del valore intero.
A maggior sostegno di quanto detto, vorrei fare un’osservazione di carattere amministrativo. Il criterio del Valore intero si applica alle assicurazioni contro i danni materiali, mentre la polizza danni indiretti appartiene alla categoria delle perdite pecuniarie. Non è un caso che le Assicurazioni Generali non abbiano applicato l’addizionale delle imposte per la legge anti racket a questa polizza (uniche a vedere giusto in un mercato stranamente convinto che la polizza potesse essere catalogata come danni materiali, in ossequio alla polizza incendio, od altra polizza di riferimento, cui è funzionalmente legata).
La via della semplificazione
In definitiva, non risulta che gli sforzi profusi nella ricerca di una formula che fornisca un calcolo del danno sempre più aderente alla realtà abbiano sortito i risultati desiderati (non è un caso che spesso i processi di liquidazione dei sinistri danni indiretti si concludano con una negoziazione puramente commerciale). Ciò è avvenuto solo nell’opinione dei tecnici, affascinati dalla filosofia ingegneristica della più tecnica delle polizze, ma assai meno in chi di quel prodotto di tecnologia assicurativa fa uso sulla propria pelle. Probabilmente calcolare l’esatta perdita di fatturato su periodi di fermata lunghi non è oggettivamente fattibile, ma lo diventa se si stabiliscono delle regole rigide e si finge di pensare che la realtà rispetti il modello e non viceversa. Non si tratta né di stupidità, né di disonestà intellettuale, ma semplicemente di resa all’impossibilità di fare diversamente.
In realtà, il vero danno da interruzione di attività non è tanto l’ammontare della somma di danaro corrispondente al mancato introito netto, quanto piuttosto il venire meno della continuità delle entrate.
L’interruzione della continuità delle entrate ha delle ripercussioni economico-patrimoniali che si generano col progredire della durata dell’interruzione, ma le ha anche sul comportamento della clientela che non può più rifornirsi dall’azienda bloccata, ma questo aspetto, come già visto, coinvolge il rischio d’impresa. Dal momento che il danno economico derivante dall’interruzione di attività non è la somma delle mancate entrate (al netto delle mancate uscite), ma l’interruzione della continuità delle entrate, per risarcire correttamente il danno indiretto occorrerebbe un meccanismo che eroghi una rendita mensile che rimpiazzi in tempo reale gli introiti che l’interruzione dell’attività produttiva fa venire meno.
Si tratta di una procedura palesemente improponibile, perché non esiste nessuna polizza che lo preveda, almeno nel mercato italiano. Diversamente, in alcuni mercati anglosassoni troviamo diffusa la clausola che consente un indennizzo a rate progressive, seppure al di fuori di una regola di periodicità.
Ma anche questo potrebbe non bastare ad arginare gli effetti devastanti dell’interruzione della continuità delle entrate. Se l’azienda perde la continuità del cash flow e magari per questa ragione non riesce più ad onorare gli impegni finanziari pregressi che prevedevano una rateizzazione che faceva conto proprio sulla continuità delle entrate, si innesca il meccanismo nefasto delle escussioni, con gravi ripercussioni patrimoniali e con la probabile perdita degli equilibri strategici. Questi eventi, aggiungendosi alla progressiva perdita dei clienti, costretti a rifornirsi altrove, generano una sinergia che può diventare letale per l’azienda.
Se tutto ciò portasse alla chiusura dell’azienda, non si porrebbe più il problema assicurativo, perché l’indennizzo non sarebbe più dovuto nei confronti di una azienda deceduta.
Se invece, l’azienda ce la dovesse fare, grazie alla propria straordinaria solidità finanziaria, al momento della ripresa della attività si potrà fare la conta dei danni, ma il peggio che è alle spalle può essere archiviato, guardando con fiducia al futuro. Quando poi, finita l’interruzione e trascorsi altri due mesi per i tempi tecnici e burocratici, la compagnia eroga l’indennizzo, non sarà grazie a questo indennizzo postumo che l’azienda si sarà risollevata, e non si potrà dire, in coscienza, che la somma pagata dalla compagnia avrà rifuso i danni patiti. O meglio, lo avrà fatto solo nell’accezione numerica del termine, come l’esempio della percorrenza a piedi rapportata al numero di ore di marcia.
Queste osservazioni sembrerebbero confermare il sospetto già anticipato, che il pagamento dell’indennizzo rientri nelle regole di un gioco, che vive una vita propria, disgiunta da ciò che accade in azienda e attorno ad essa.
Volenti o nolenti il sinistro di danno indiretto innesca fenomeni che appartengono alla sfera del rischio d’impresa, e questi possono avere degli sviluppi che inficiano la risarcibilità anche della parte di danno assicurabile. Basti pensare al rischio di chiusura definitiva a causa di una consistente perdita di clienti per prolungata assenza dal mercato.
Perciò chi afferma che la polizza non si può occupare del rischio di impresa, inconsapevolmente ammette che i suoi conteggi rispettano le regole di un gioco teorico, nella cui dimensione surreale, gli aspetti di rischio assicurabile e quelli del rischio di impresa possono essere tenuti separati.
Ma se questo deve essere il senso ultimo della polizza danni indiretti, tutta la sofisticazione del calcolo si traduce nel conseguimento di un risultato che è certamente fedele al modello, ma non si sa quanto lo sia alla realtà. In poche parole, ad un indennità convenzionale.
Sebbene questa conclusione sembri una critica, vorrei dire che la natura convenzionale del risultato finale è l’aspetto che condivido più di ogni altro. Questa conclusione mi deriva da una esperienza professionale che mi impartì un grande insegnamento.
Un ragioniere, con mansioni di responsabile amministrativo di una importante realtà industriale presente con le sue unità produttive su tutto il territorio nazionale, cui venne proposto di inserire nel suo piano assicurativo la polizza dei danni indiretti, vista la presentazione della polizza e del metodo per il calcolo della somma assicurata, disse testualmente: “Se è già così difficile calcolare la somma assicurata, non oso pensare cosa sarà calcolare l’indennizzo in caso di sinistro”.
L’affare si concluse ugualmente per ragioni che andavano al di là di pareri o spiegazioni più o meno convincenti, ma era evidente che il ragioniere disapprovava quella scelta.
Infatti, non si limitò a pronunciare quella frase, ma si avventurò a suggerire come dovrebbe essere impostata la polizza danni indiretti per essere credibile e convincente:
“Una diaria forfetaria moltiplicata per un numero di giorni pari alla durata della fermata, con un limite di durata ed una franchigia, il tutto a prescindere da quella che fosse realmente la perdita economica subìta dall’assicurato”.
Il ragioniere, a sua insaputa, aveva applicato il metodo dell’inabilità temporanea da infortunio alla polizza danni indiretti, dichiarando che una simile proposta l’avrebbe sottoscritta con gioia anche se l’indennizzo fosse risultato inferiore al danno, contro il vantaggio di semplificare un marchingegno, alla sua vista, imperscrutabile.
In modo altrettanto inconsapevole, il ragioniere aveva intuito che la via giusta per indennizzare un danno che non può essere misurato oggettivamente, se non in pochi casi particolari, è quella del forfait, in ossequio al senso giuridico del termine INDENNIZZO: “una somma disgiunta da un valore oggettivo, pagata al danneggiato, a titolo di ristoro qualitativo del danno patito”. Per dirla dalla parte di chi sa come stanno le cose, diciamo che il forfait si dichiari per ciò che è, facendo cadere la maschera dei minuziosi algoritmi, dietro ai quali, seppure in modo involontario, si nasconde.
Forse rispolverare la diaria liberandola impunemente dal valore intero, potrebbe urtare la suscettibilità dei puristi della tradizione, anche se va riconosciuto che i presupposti deontologici perché sia messo in atto non mancano.
Tuttavia, la polizza margine di contribuzione, con un atto di coraggio, ha fatto da apripista verso questa nuova frontiera della trasparenza ed ora l’auspicio è che la somma assicurata dei danni indiretti possa rassomigliare sempre di più ad un massimale, lasciando all’assicurato la responsabilità di dimostrare i costi sostenuti e le perdite subìte, senza ingabbiare il suo problema in uno schema prestabilito, comunque incapace di descrivere la realtà in ogni sua sfaccettatura. Personalmente credo in questa strada attraverso la quale, probabilmente si riuscirebbe a rendere questa polizza, fin troppo discussa, un po’ più amata dal pubblico degli utenti e, magari, un po’ meno temuta da quegli agenti preoccupati di non guastare i rapporti con i loro clienti.
(*) Ad onor del vero il termine danno indiretto non è
esaustivo, laddove anche un danno materiale consequenziale
avrebbe titolo per essere definito indiretto.
Per riferirci inequivocabilmente ai danni da interruzione
di attività, dovremmo dire danni immateriali
conseguenti.