MASSIMO GIANNINI

Finirà che ai Ligresti dovremo porgere tante scuse. La famiglia si è sentita offesa, e con tanto di nota ufficiale ha spiegato che l’accostamento tra Fonsai e San Raffaele è «lesivo e arbitrario». Ha ragione, ma al contrario. Il disastro della Fonsai è persino peggio del crack del San Raffaele. La terza compagnia d’assicurazione italiana, quotata in Borsa, è stata trasformata nel Bancomat personale di Don Salvatore e dei suoi ragazzi, che in dieci anni hanno succhiato dalle casse societarie oltre 400 milioni, e negli ultimi due esercizi l’hanno portata a perdere più di 2 miliardi. Nel silenzio cieco della Consob e dell’Isvap, si è consumato l’ennesimo scandalo del capitalismo di relazione. Con i presidenti di entrambe le sedicenti «authority amministrative indipendenti» impegnati non a vigilare e a sanzionare, com’era loro dovere, ma a piazzare i rispettivi figli nel libro paga dagli stessi Ligresti. 
Toccherà alla magistratura decidere il da farsi. Ma nel frattempo si impone una riflessione più generale, che riguarda il diritto penale dell’economia. Nel Paese riesplode la questione morale: da Milano a Bari imperversano il malaffare e la commistione tra affari e politica. Il capo economista dell’Ocse Pier Carlo Padoan avverte che il vero freno all’ingresso degli investitori stranieri in Italia è la corruzione, non certo la rigidità del mercato del lavoro. Nonostante questo monito autorevole, proveniente da un organismo sovranazionale, la riscrittura dell’articolo 18 e l’abolizione dell’obbligo di reintegro nel caso di licenziamenti «per motivi oggettivi o economici» vengono considerate priorità assolute da Monti e Fornero. Con una definizione così «lasca» del diritto a licenziare da parte delle imprese, basterà esibire al giudice un bilancio in rosso per mandare a casa un po’ di lavoratori. 
Ora, mettendo insieme lo scandalo Fonsai, la corruzione dilagante, e la libertà di licenziamento giustificata da crisi economica, una domanda al governo sorge spontanea: cosa aspetta a reintrodurre nel nostro ordinamento il reato di falso in bilancio, di fatto depenalizzato nel 2002 dall’allora premier ad personam Silvio Berlusconi per difendersi dai suoi processi? Cosa aspetta a riallineare l’Italia alle ben più severe norme penali vigenti nel resto dell’Occidente? Come ha ricordato il procuratore aggiunto di Milano Francesco Greco la settimana scorsa, «senza il falso in bilancio la corruzione non si può combattere». Alla Camera giace un disegno di legge dell’Italia dei Valori, che sarà discusso solo a maggio. Ma il Guardasigilli Severino ha già annunciato che sul falso in bilancio «indietro non si torna». Gentile ministro della Giustizia, ci spiega perché dobbiamo rispettare i vincoli europei sui bilanci dello Stato, ma possiamo non farlo sui bilanci delle imprese?
m.giannini@repubblica.it