di Anna Messia

Il divieto di cumulo dei doppi incarichi è pronto ad abbattersi come un ciclone sui consigli di amministrazione delle società italiane. Personaggi di primo piano della finanza italiana come Vincent Bollorè o Alberto Nagel, entro due o tre giorni al massimo dovranno scegliere la poltrona che preferiscono tra quelle che occupano, e abbandonare gran parte degli incarichi ricoperti fino ad oggi in altri consigli. E il cambiamento è pronto a colpire indistintamente banche e compagnie di assicurazione, coinvolgendo in totale, secondo quanto risulta dai primi calcoli, poco meno di 1.500 poltrone. Una vera e propria rivoluzione dovrà insomma prendere corpo in pochissimi giorni. Perché le linee guida interpretative che le autorità di controllo hanno dato all’articolo 36 del decreto salva-Italia pubblicate venerdì 20 aprile, come anticipato da MF-Milano Finanza, hanno cancellato ogni ombra di dubbio: la legge dovrà essere applicata nella sua versione più severa con un divieto di cumulo di qualsiasi carica. Non solo consigliere, ma anche membro del consiglio di gestione, di sorveglianza, e del collegio sindacale. Oltre ai funzionari di vertice e a chi redige i bilanci delle società. Gli unici esonerati saranno i consiglieri di piccole società, che hanno un fatturato inferiore a 47 milioni (che per le banche corrisponde a un attivo patrimoniale di 470 milioni) e potranno essere mantenuti solo gli incroci in cda di banche e compagnie quando le imprese coinvolte pesano meno del 3% nel fatturato complessivo del gruppo cui appartengo. Insomma, quisquilie. Nella rete dell’articolo 36 sono finiti praticamente tutte le società di media e grande dimensione, lasciando fuori solo le imprese che non possono creare problemi di concorrenza, criterio che è stato il principio ispiratore dell’articolo 36 e del suo promotore più convinto, l’attuale sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Antonio Catricalà, che aveva già sollevato il problema dalla diffusione degli interlocking nella finanza italiana a quando era presidente dell’Antitrust. Tra l’altro, il tempo a disposizione per adeguarsi alla norma, pena la decadenza da tutte le cariche, è pochissimo: i consiglieri sono chiamati a comunicare la propria opzione al consiglio entro il 26 aprile. Considerando la festività del 25 aprile, la scelta dovrà quindi essere maturata in appena un weekend. Qualcuno ha già iniziato a selezionare le poltrone (come Giovanni Bazoli, Carlo Pesenti o Francesco Gaetano Caltagirone), ma ora il faro è puntato in particolare sulla galassia Mediobanca-Generali dove a incorrere nel divieto sono, oltre al presidente di Generali, Gabriele Galateri di Genola (che però ha già comunicato che lascerà la poltrona di consigliere di Banca Carige), ci sono Alberto Nagel, Francesco Saverio Vinci e Vincent Bolloré, tutti presenti sia in Mediobanca che nella partecipata assicurativa. Quale delle due? «Voglio restare in entrambi», aveva detto Bolloré a marzo scorso quando gli era stato chiesto come si sarebbe orientato alla luce delle nuove regole. «Non credo sia il mio caso», aveva aggiunto, «Generali è un’assicurazione e Mediobanca un banca: i business sono diversi e non in concorrenza ». Una lettura che però è stata completamente ribaltata dalle linee guida pubblicate da Consob, Isvap e Banca d’Italia, con la supervisione dell’Antitrust: il caso di Mediobanca-Generali ricade senza ombra di dubbio nel divieto dell’articolo 36. Anzi. È l’ipotesi di scuola che è contenuta nel primo esempio indicato nel documento che spiega quali sono gli incroci vietati: uno stesso consigliere non può partecipare a due cda di capogruppo che controllano contemporaneamente società bancarie e assicurative. Com’è il caso appunto di Generali (che controlla Banca Generali) e Mediobanca (che controlla Chebanca!). E in ogni caso l’incrocio non potrebbe valere, perché sia Mediobanca sia Generali hanno ovviamente un fatturato superiore al 3% del gruppo di appartenenza. A questo punto l’unica via di uscita per la galassia di bypassare la norma sarebbe quella di dichiarare che Mediobanca, nonostante detenga solo il 14%, ha il controllo di fatto di Generali. Solo così il divieto potrebbe cadere. Una questione, quella del controllo, che è stata a lungo dibattuta con la stessa Antitrust (anche davanti al Tar) e contro la quale Mediobanca si è sempre schierata con forza. È perciò certo che Nagel e Vinci, coerenti con ciò che hanno sempre sostenuto, lascino il cda Generali in favore di un manager operativo (ma privo di delega a rappresentare l’istituto) e di un professionista di alto profilo. Le nuove regole sono destinate a coinvolgere un po’ tutto il settore e a rivoluzionare gli equilibri dei consigli di amministrazione anche all’interno degli stessi gruppi. Nonostante l’articolo 36 abbia esonerato dal divieto di incrocio tutte le società appartenenti a uno stesso gruppo, ci sono infatti alcune situazioni in cui l’impedimento non decade. Si tratta delle joint venture, che in Italia sono molto diffuse tra banche e compagnie di assicurazione, con gli stessi rappresentati degli istituti o delle compagnie che spesso siedono contemporaneamente nei consigli delle diverse società, anche se realizzate con partner differenti. Le linee guida stabiliscono che nel caso di joint venture «il divieto non si applica tra le cariche detenute nell’impresa comune, risultati dalla joint venture, e quelle detenute nelle società che vi partecipano, perché i rapporti intercorrenti tra queste e quelle sono configurabili come controllo congiunto ai sensi della legge antitrust». In pratica, il consigliere di una compagnia può continuare a sedere nel cda della joint venture direttamente controllata. Ma soltanto in quella società del gruppo. In altre parole, chi vorrà avere un incarico nel consiglio della joint venture dovrà rinunciare a tutti gli altri incarichi del gruppo, oltre ovviamente a non poter accedere ad altre eventuali joint venture che la banca o la compagnia ha stipulato con altri alleati. Una novità che è destinata a coinvolgere un gran numero di consigli di amministrazione considerando che la prassi comune di banche e compagnie è stata finora di utilizzare gli stessi uomini nei consigli di buona parte delle società di joint venture. I nomi coinvolti, in questo caso, sono meno altisonanti dei consiglieri delle holding o delle capogruppo. Ma si tratta di un numero ben più consistente, destinato ad alimentare l’esercito dei 1.500 che nei prossimi dovrà scegliere una sola poltrona. (riproduzione riservata)