È l’italiano a cui Allianz ha affidato responsabilità in aree mondiali e business cruciali. Per lui in Italia, dopo la riforma Bersani, alle compagnie i conti non tornano più. A meno che non si cambi metodo 

di Andrea Cabrini Class Cnbc

È l’assicuratore italiano con maggiore responsabilità all’estero, visto che l’Allianz gli ha affidato i mercati assicurativi in Italia, Spagna, Portogallo, Turchia, Grecia e Sud America e la realizzazione del programma di sviluppo strategico e ristrutturazione, a livello mondiale, del business danni e del sistema distributivo del gruppo.

E sicuramente Enrico Tomaso Cucchiani, presidente di Allianz spa e membro del Consiglio di gestione del colosso tedesco, ha fatto tesoro della franchezza con cui i top manager teutonici sono soliti esprimere le proprie idee. Come testimonia questa intervista.

Domanda. Dottor Cucchiani, può dare al lettore un’idea delle dimensioni di Allianz?

Risposta. Allianz è una realtà molto complessa, molto grande. Operiamo in 70 Paesi, serviamo direttamente 80 milioni di clienti e tramite altri canali abbiamo accesso ad altri 250 milioni di clienti.

Siamo primi al mondo per raccolta, ma soprattutto per utile operativo, utile netto e per capitalizzazione di borsa. C’è un’altra dimensione interessante: abbiamo in gestione asset pari a 1.500 miliardi, l’equivalente del pil italiano.

D. Chi meglio di lei allora per tastare il polso dell’economia globale… Come stanno andando veramente le cose?

R. È difficile dire che cosa sia l’economia globale, perché si rischia di incorrere in quell’errore che indicava un mio professore di statistica quando diceva che l’italiano medio è un individuo metà uomo e metà donna…. L’economia globale è ancora più complessa. Semplificando, una metà del mondo sta cercando di uscire dalla peggior crisi dagli anni 30 a oggi,, mentre l’altra metà sta andando benissimo. La parte in crisi è costituita dalla Vecchia Europa, dagli Stati Uniti e dal Giappone. In questa metà del mondo ci sono paesi con debito pubblico assai elevato e crescente, alti tassi di disoccupazione, alta pressione fiscale, bassa crescita e strutture demografiche sfavorevoli, che non consentono di contribuire allo sviluppo del pil ma che, in prospettiva, genereranno costi di welfare ancora maggiori. Ma ci sono anche eccezioni positive importanti: la Germania e i Paesi del Nord.

D. E quella che va a gonfie vele?

R. È costituita dai Paesi emergenti. Un tempo venivano chiamati sottosviluppati, poi in via di sviluppo e adesso emergenti. In realtà sono qualcosa di più, forse li dovremmo chiamare trainanti. Sono Cina, Brasile, India, Russia, tutto l’Est e i Paesi del Golfo. Hanno forti surplus, bilanci pubblici in ordine, strutture demografiche favorevoli, ad eccezione della Cina. Fanno tanti investimenti (anche nei debiti pubblici altrui, come quello Usa), esportano, stimolano i consumi interni e pertanto hanno una crescita esplosiva. Queste economie rappresentano una straordinaria opportunità di crescita anche per l’Europa.

D. E l’Italia?

R. Non dobbiamo abbandonarci al pessimismo, prendiamo piuttosto spunto dalla cultura orientale, in cinese la parola crisi si esprime con un ideogramma che si compone di due simboli: quello superiore significa pericolo, quello inferiore opportunità. Nei momenti di difficoltà e di discontinuità ci sono tante opportunità, ma per coglierle ci vogliono imprenditorialità, energia e leadership.

D. In passato la ripresa dell’economia italiana dipendeva dal traino della Germania. E ora?

R. La Germania ha una crescita economica assai robusta e conti pubblici in ordine. La crescita è stata possibile perché il paese ha saputo cogliere le opportunità della globalizzazione, affermandosi sui nuovi mercati grazie alla qualità dei propri marchi, dei prodotti e della tecnologia. Per la Germania, il mercato europeo viene considerato quello domestico: prendete Allianz, per esempio, ha abbracciato, prima tra i grandi gruppi, la forma di Società europea proprio per sottolineare che l’Europa è la propria casa.

D. Dove sta la forza del sistema industriale tedesco?

R. In Germania c’è un tessuto industriale straordinario, molto simile a quello del Nord Italia. Ma è molto più pervasivo, perché copre l’intero territorio tedesco. Inoltre ci sono tante grandi aziende. Nell’indice Eurostoxx delle maggiori 50 società europee, ci sono solo sei società italiane, tre delle quali ex monopoli di stato, due ex banche pubbliche e solo una nata come azienda privata. La Germania ne conta 13, e la Francia ben 19.

D. Quanto contano i fattori culturali?

R. Molto. In Germania c’è una cultura tecnica assai spinta, simile a quella giapponese e a quella che in parte si trova anche in Italia. Poi c’è la cultura del rigore, che non si riferisce solo ai conti, ma anche al rigore morale. Illuminante è stato il caso di Karl-Theodor zu Guttenberg: considerato la stella nascente della politica tedesca, ha dovuto lasciare la carica di ministro della Difesa perché gli è stato obiettato che la sua tesi di dottorato evidenziava in modo incompleto le fonti delle note a pie’ di pagina. Dal punto di vista italiano tutto ciò fa sorridere e appare eccessivo. Una riflessione più profonda, peraltro, ci segnala che questa cultura favorisce un processo di selezione dei leader assai rigoroso ed è la migliore premessa per l’affermazione della meritocrazia, stella polare vera e necessaria per vincere nella competizione globale.

D. Come vede il mercato assicurativo italiano?

R. È molto importante e per Allianz viene subito dopo la Germania e prima della Francia. Fino alla riforma Bersani, il mercato italiano era considerato il più interessante in Europa.

D. E poi?

R. Prima della riforma Bersani il mercato poteva contare su compagnie sane e solide ed efficienti, con buone prospettive di crescita e un sistema distributivo avanzato. La riforma si poneva obiettivi condivisibili: più competitività, più concorrenza. Purtroppo le lenzuolate dell’allora ministro dell’Industria hanno prodotto anche effetti perversi e indebolito in modo pericoloso un settore cruciale.

D. Perché perversi?

R. Da allora a oggi le tariffe sono scese in termini reali di circa il 20% e ciò è senz’altro positivo per i consumatori. Allo stesso tempo, però, il costo dei sinistri è aumentato del 6% e i costi distributivi sono aumentati proporzionalmente di un 10-15%. Così i conti non tornano più. Oggi il settore rivela indubbie gracilità: importanti compagnie hanno accumulato rilevanti perdite, taluni operatori hanno dovuto effettuare ricapitalizzazioni consistenti e i margini di solvibilità hanno subito contrazioni. Ecco perché il mercato è meno solido dell’epoca pre-Bersani.

D. Con quali ripercussioni per l’economia italiana?

R. L’assicurazione oltre a proteggere dai rischi e integrare il welfare pubblico, è essenziale in ogni fase dell’attività economica e commerciale delle imprese. Inoltre le compagnie sono gli investitori istituzionali di gran lunga più importanti e hanno contribuito alle privatizzazioni e allo sviluppo dell’azionariato. Sono gli assicuratori che assorbono fra un terzo e un quarto del debito pubblico italiano, che come sappiamo è assai elevato. Quindi abbiamo bisogno di un sistema assicurativo italiano sano, forte, robusto e in grado di giocare un ruolo di vera partnership per i consumatori, con le imprese e con lo Stato.

 

D. Che cosa servirebbe in concreto?

R. La strada maestra è quella della maggiore trasparenza (non facilitata e forse anche inibita dalla Bersani), del contenimento del costo dei sinistri con normative allineate agli standard internazionali, della lotta alle frodi, del rispetto effettivo delle regole del traffico. Occorre poi individuare ruoli complementari al welfare di Stato, per alleviare la pressione sui conti pubblici, che altrimenti subiranno il peso ulteriore determinato dalla struttura demografica italiana. Ma si pone anche una questione di metodo: la tematica è assai complessa e per affrontarla occorre cooperazione e discussione fra tutti gli stakeholders, per evitare distorsioni di lenzuolate unilaterali, approssimative e superficiali. (riproduzione riservata)