L’omicidio colposo plurimo non prevede pene molto diverse di Emilia Rossi * *Avvocato penalista Ha parlato di svolta epocale il Procuratore di Torino, Raffaele Guariniello, nel suo primo commento alla pronuncia della sentenza della Corte d’Assise sul caso ThyssenKrupp. L’aggettivo epocale è piuttosto ricorrente negli ultimi tempi ma, in questo caso, non è usato a sproposito. È la prima volta, infatti, che si assiste alla contestazione, innanzitutto, e all’addebito, poi, del delitto di omicidio volontario per un infortunio sul lavoro. Non è la prima volta, invece, che si manifesta l’orientamento delle procure a passare la sottile linea di confine tra la colpa cosciente e il dolo eventuale in casi in cui il comportamento umano non è determinato da una volontà diretta a realizzare l’evento dannoso: anzi, è un orientamento che si sta diffondendo, per esempio, nei casi di gravi incidenti stradali che colpiscono particolarmente la sensibilità collettiva. Ed ecco la prima spia d’allarme che si accende per la vicenda Thyssen: la pronuncia della Corte d’Assise è destinata a fare scuola e ad avere, quindi, rilevanti conseguenze nella dottrina penalistica in materia di qualificazione dell’elemento soggettivo del reato, cioè dei requisiti psicologici che consentono di ricondurre un fatto alla volontà di chi agisce. E tutto ciò in un campo assai delicato che ha impegnato da oltre mezzo secolo i più autorevoli autori della scienza penale, quale è quello della distinzione tra colpa e dolo. Diventa importante, quindi, comprendere quanto di questa rivoluzione interpretativa sia dettata dall’oggettiva specificità del caso e quanto costituisca, invece, la risposta che tutti attendevano ad un fatto che ha colpito e turbato profondamente la collettività. È lecito chiedersi, insomma, se, sulla sentenza Thyssen, sia pesato un pressing mediatico, come l’ha chiamato l’avvocato Cesare Zaccone. Rispondere prima di leggere le motivazioni della sentenza è difficile, tenuto conto che gli organi di stampa non ci hanno mai fornito nella loro completezza gli elementi su cui si è fondato il giudizio, tutti univocamente tesi, a cominciare dalla stampa cittadina di Torino, a fare da cassa di risonanza delle tesi dell’accusa e a svalutare gli interventi difensivi. Certo è che l’attenzione che gli organi di informazione, non solo italiani, hanno tenuto sul processo per tutta la sua durata fino all’attesa della sentenza e le aspettative che organizzazioni sindacali, partiti politici, autorità di governo, rappresentanze locali e cittadinanza riponevano nel «verdetto», destano ragionevoli perplessità sul fatto che il giudizio non abbia risentito, almeno in parte, della pressione dell’opinione pubblica debitamente istruita dalla grancassa mediatica. E del resto, vien da chiedersi quale sia la ragione profonda della scelta di una imputazione come quella di omicidio volontario se non il valore simbolico e anche d’immagine che ne discende e che la rende incommensurabilmente diversa da quella di omicidio colposo. Non si tratta, evidentemente, di entità della pena comminabile, nè di tutela delle parti lese, nè di diversa sanzionabilità dell’azienda: le pene inflitte ai dirigenti della Thyssen che rispondevano (soltanto) di omicidio colposo plurimo non sono sensibilmente diverse da quella cui è stato condannato per omicidio volontario l’amministratore delegato Harald Espenhahn. E, allo stesso modo, il risarcimento del danno alle vittime non discende necessariamente dalla diversa qualificazione giuridica dei fatti. Altrettanto può dirsi per le sanzioni inflitte all’azienda. Insomma, l’imputazione per omicidio colposo plurimo avrebbe potuto produrre analoghi risultati, sia in termini di pena che per il riconoscimento dei diritti delle vittime. Ed allora che cos’è che fa la differenza? Il dolo porta l’imputato davanti alla Corte d’Assise e ai giudici popolari, anzichè lasciarlo nella dimensione più contenuta e meno suggestiva dal punto di vista mediatico del giudice monocratico. Lo mette immediatamente sotto la luce dei riflettori e delle telecamere. Non solo. Nelle pieghe delle dichiarazioni del Procuratore si legge la valenza più significativa della sentenza, del processo e dell’imputazione epocali: l’avvertimento reso a tutte le imprese rispetto all’osservanza delle misure di sicurezza sul posto di lavoro. Traspare l’idea, ancora una volta, come abbiamo già visto in passato, che l’obiettivo principale del processo non è l’accertamento di responsabilità individuali ma la persecuzione e la prevenzione di un fenomeno. L’imputato non è l’amministratore delegato della Thyssen, è il fenomeno dell’impresa che non garantisce l’assoluta sicurezza sul lavoro. Ed è esattamente questo il risultato che opinione pubblica, sindacati, politici e istituzioni si attendono dalle pronunce giudiziarie in casi come quello della Thyssen. Questa, in realtà, è l’aspettativa più forte che può aver gravato sul processo di Torino ed è anche la ragione più seria della sovraesposizione mediatica creata intorno al caso, come complemento necessario di un evento pubblico destinato a «trasformare» qualcosa non solo nel diritto ma anche nell’economia e nel mondo del lavoro. Il che significa che l’atteggiamento «fattivo» della magistratura si realizza con la partecipazione consapevole di quanti delegano alla produzione giurisprudenziale compiti propri. Applaudire incondizionatamente alla sentenza esemplare è pura demagogia, infatti, a meno che non si ritenga che la condanna arrivi lì dove le forze delle istituzioni e degli enti preposti al controllo sulla sicurezza nel lavoro non riescono arrivare. E, forse, le cose stanno così e le istituzioni continuano ancora oggi a cadere nella tentazione della protezione paternalistica del Giudice per assicurarsi la bontà del proprio operato. A dispetto del fatto che esemplare è una sentenza giusta. Non una sentenza esemplare.