Anche senza legge anti-Opa, gli investitori esteri nel Ftse Mib sono una minoranza, con il 5,8% della capitalizzazione. E dove le quote sono più elevate la scalata resta impossibile

di Laura Magna – 16-04-2011

LISTINI & ITALIANITA’ Italia, 2011: non passa lo straniero. Il Governo si schiera a difesa dell’italianità delle imprese. Ma ce n’è davvero bisogno? A guardare i puri numeri verrebbe da dire di no: in base all’analisi delle partecipazioni rilevanti, ovvero sopra il 2%, nelle società del Ftse Mib, solo il 5,8% della capitalizzazione complessiva è in mano a esteri. Per lo più istituzionali. Ci sono singoli casi in cui la partecipazione estera è forte: come in Azimut (16,3%) o Campari (circa 15%) o Exor (14,51%) o Impregilo e Mediobanca (oltre il 12%). Ancora Prysmian è posseduta per il 24,74% da esteri; Telecom all’11,5% (oltre alla metà della controllante Telco che è in mano alla spagnola Telefonica); Tod’s al 13,2%; Unicredit a oltre il 18 per cento. Tutte potenziali nuove Parmalat?
«In effetti no – spiega a B&F Fabiano Schivardi, professore straordinario di Economia Politica all’Università di Cagliari – Parmalat è una public company ed è probabilmente l’unica sul listino italiano. In molti degli altri casi, esiste un socio di maggioranza forte che anche con un patto tra gli stranieri rimarrebbe socio di maggioranza. Per quanto riguarda le banche e le istituzioni finanziarie esistono patti di sindacato che equivalgono al socio forte». E soci forti ce ne sono: è il caso dei Garavoglia in Campari e di Della Valle in Tod’s, entrambi sopra il 50 per cento. Quale straniero potrebbe far fuori la Giovanni Agnelli Sapa, che possiede il 52,66% di Exor o sgominare la Igli che detiene il 29,9% di Impregilo? Mentre a proteggere Saipem c’è il quasi 43% del ministero dell’Economia. Senza a considerare la golden share nello statuto di Telecom che dà al governo il diritto di veto su eventuali nuovi ingressi nel capitale. A ben vedere, nell’elenco sopra citato, l’unica società a cui un colpo di mano da Oltre confine potrebbe strappare l’italianità è il gioiellino che produce cavi per il trasporto dell’energia, Prysmian, il cui primo azionista, Flint Holding è al 7,38 per cento.

STRANIERI SÌ O NO? L’invasione dei barbari sembra essere un puro esercizio di fantasia. La presenza straniera è preponderante, però, al livello di istituzionali: secondo Borsa Italiana nell’azionariato del Ftse Mib (con quote anche al di sotto del 2%) ci sono 8.000 fondi istituzionali di 40 Paesi, rappresentati da 1.300 case di investimento che detengono più del 90% del controvalore totale. Ma anche restringendo il campo alle sole partecipazioni rilevanti, la presenza di non italiani nel capitale, è in crescita. Secondo Consob, la fetta extra italiana è passata dal 25% nel 1998 al 39% nel 2010. La quota media del capitale detenuto dagli esteri si è ridotta, in compenso, dal 7,5% al 6,8 per cento. E la presenza estera nelle assemblee 2010, nelle società del Ftse Mib e nelle mid cap è stata del 6,6 per cento. Numeri che indicano una crescita, ma che non salvano il Paese dalle ultime posizioni nella classifica europea. Secondo la Federazione europea delle Borse (Fese) infatti nell’Europa a 27 l’Italia, con una quota di investimenti esteri del 14% è penultima, seguita solo da Cipro che è poco sopra il 10 per cento. Non solo. «Se si prendono in cosiderazione tutte le aziende italiane con oltre 10 addetti, quelle in cui gli stranieri hanno almeno il 50% del capitale sono il 4,1 per cento – continua Schivardi – meno di metà del 10,3% della Francia, un terzo del 12,2% del Regno Unito. Le pare davvero si possa parlare di colonizzazione del sistema italiano? Io direi di no». E se non esiste alcun pericolo di colonizzazione, su cosa si basa allora l’esigenza di varare un decreto anti-Opa a difesa dei campioni nazionali?

LE RAGIONI ANTI-OPA. «Parmalat è un’impresa strategica? – si chiede Fausto Panunzi, professore di Economia politica dell’Università Bocconi – Perché non lo era Bulgari, non lo è Telecom, che è pure il gestore della nostra rete telefonica? È evidente che ci siano ragioni politiche, legate al latte lombardo e ai voti della Lega». Ragioni che non hanno cioè nulla a che fare con economia e/o finanza. «La politica torna ciclicamente a ergersi a difesa dell’italianità – conferma Schivardi – Salvo poi scoprire come nel caso di Alitalia, che è stata un’operazione a perdere e sarebbe stato meglio vendere ai francesi. Tuttavia, nei sondaggi di opinione la difesa dell’italianità paga». E chiudere le porte al capitale d’oltreconfine conviene. «Queste barriere – sostiene il professore – fanno comodo a capitalisti con poco capitale, a un gruppo di manager che si muove da un Cda all’altro sulla base di una rete di conoscenze e non di competenze. E alla politica che può fare pressione per chiedere di comprare latte di una regione o tenere il livello di occupazione stabile in un’altra area geografica. Un investitore straniero baderebbe al ritorno economico piuttosto».
La conclusione è che questa difesa ci fa male e crea paralisi. «Se si escludono le privatizzazioni – continua Schivardi – le quote proprietarie sono pietrificate da sempre. Mentre sarebbe importante che si aumentasse la capitalizzazione con capitali, fondi di investimento e fondi pensione stranieri. Per far questo bisogna proteggere gli investitori e non le imprese come stanno facendo Governo e anche Consob». Il presidente dell’Autorità di controllo sui mercati, Giuseppe Vegas, si è nei giorni scorsi espresso sul regolamento dell’Opa, appellandosi alla necessità di garantire «un gioco di concorrenza leale». E in questo momento sarebbero sfavorite le aziende italiane a cui manca liquidità. E Vegas ha sollevato dubbi anche sull’opportunità di tenere valida la soglia del 30% oltre la quale scatta l’obbligo dell’Opa sulla totalità delle azioni e ha ipotizzato di dare alla Consob stessa maggior discrezionalità sul tema. «Discrezionalità che può voler dire – spiega Panunzi – un ritorno al periodo pre-98 quando in effetti era l’Autorità a decidere quando lanciare un’Opa: ma sarebbe una scalata azzardata che creerebbe incertezze tali da congelare mercato e contendibilità. Attenzione: che la difesa dell’italianità non penalizzi gli azionisti, e le minoranze in particolare».
Il punto è proprio questo anche secondo Schivardi. «La Consob deve tutale gli investitori e gli investitori non sono interessati al passaporto delle imprese». Non solo. «Ci sono casi – aggiunge ancora Schivardi – come quello di Bulgari in cui la proprietà stessa ha deciso di cedere la sua quota a un gruppo estero. Se lasciamo la dicrezionalità a Consob o se, nell’ambito di una legge anti Opa, viene chiusa la porta a un acquirente non italiano dove finisce il libero mercato?». Il dubbio se l’è posto anche la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia che, riguardo a Parmalat ha detto: «Se c’è un progetto industriale serio e vero che vede imprenditori italiani coinvolti, ben venga. Ma l’importante è che non ci sia semplicemente una volontà di proteggere, di chiudersi agli investimenti esteri». L’italianità non è un valore assoluto. E non è, in fin dei conti, un valore di per sé.