di Lorenzo Pallesi*

I gravi eventi sismici verificatisi in Giappone riportano all’attualità la categoria dei rischi cosiddetti catastrofali, che deve essere oggetto anche nel nostro Paese di attenta considerazione sotto ogni aspetto.

Sebbene l’Italia sia un Paese ad altissimo rischio sismico e alluvionale, nel nostro ordinamento giuridico non esiste una legge organica che regoli in via generale gli interventi dello Stato quando viene dichiarato dal governo lo «stato di calamità». Le disposizioni normative esistenti si limitano a regolare la materia del pronto intervento e a gestire l’emergenza.

In Italia non esiste in realtà alcuna legge che imponga al governo di indennizzare i danni subiti dai cittadini a seguito di una calamità; da circa 50 anni però si è consolidata una prassi in base alla quale, dopo qualsiasi grave calamità, l’esecutivo è intervenuto con provvedimenti e stanziamenti di somme di danaro per effettuare gli interventi di soccorso, installando campi per gli sfollati, fornendo indumenti e generi di prima necessità, per ripristinare le infrastrutture e, soprattutto, per indennizzare i danni subiti dagli enti pubblici e dai privati, cioè cittadini e imprese.

Non è un segreto che gli indennizzi abbiano sempre sollevato e continuino a sollevare polemiche politiche oltre che innescare azioni giudiziarie; tanto che già nel 1992 il presidente del Consiglio Amato ammetteva l’incapacità dello Stato di gestire con criteri di economicità e di correttezza gli incentivi a valle delle grandi calamità.

Senza approfondire il tema delle vere e proprie truffe emerse in relazione alla gestione dei rimborsi, in sostanza l’indennizzo pubblico presenta due distinte categorie di problemi. La prima è collegata a una non equa redistribuzione dei risarcimenti, che risultano influenzati dalle pressioni che i soggetti più addentro ai meccanismi amministrativi riescono a operare a danno dei cittadini «normali»; e la seconda collegata a una serie di ritardi nella stessa erogazione dei risarcimenti.

Occorre inoltre rilevare che da un punto di vista strettamente tecnico sul suolo italiano insiste una quantità unica al mondo di edifici storici anche molto antichi che, se colpiti da un violento sisma, potrebbero andare completamente distrutti.

 

Qui non si tratta solo e semplicemente di disporre severe norme antisismiche per gli edifici di nuova costruzione, quanto di comprendere che la maggior parte del paesaggio urbano italiano ha un’età ben diversa da quello di Paesi come il Giappone o la California e che seppure si possa intervenire in vario modo per aumentare la tenuta degli edifici, non è possibile immaginare di ricostruire intere città in cui l’80% del nucleo urbano più prezioso è costituito da edifici pluri-centenari.

Inoltre il fenomeno dell’abusivismo edilizio, che ha ormai toccato livelli intollerabili, ha aggiunto al fragile patrimonio edilizio storico del Paese un grande numero di edifici realizzati in zone ad alto rischio idrogeologico, che rappresentano un ulteriore problema.

Questo quadro di insieme fa sì che se – facendo i debiti scongiuri – un sisma come quello che ha recentemente colpito il Giappone colpisse oggi il nostro Paese, alla catastrofe umanitaria se ne aggiungerebbe una di tipo finanziario la cui soluzione sarebbe alquanto difficile.

Il governo in carica si troverebbe infatti prigioniero di una prassi consolidata da mezzo secolo e dovrebbe individuare risorse per i risarcimenti e la ricostruzione di un patrimonio edilizio storico di grande pregio e valore, vedendosi costretto inevitabilmente a distribuire l’onere su tutti i cittadini con ulteriori nuovi oneri fiscali, come peraltro è già avvenuto finora in conseguenza di fenomeni pur gravi e dolorosi, ma di portata locale, come il disastro del Vajont, il terremoto del Belice e dell’Irpinia, i cui costi sono (tuttora) finanziati con le accise sui carburanti.

In sostanza occorre domandarsi se, a seguito di una prassi consolidata, debba essere lo Stato ad accollarsi direttamente l’onere della ricostruzione del patrimonio privato, oppure se non sarebbe più efficiente che i cittadini fossero tenuti, come già fanno per le proprie auto, ad assicurare i beni immobiliari con una polizza assicurativa contro le catastrofi, come già avviene in molti Paesi del mondo e della stessa Europa, due dei quali a noi molto vicini come la Francia e la Spagna.

La questione non è nuova e già in passato, nel 2002 con il disegno di legge 533/2002, nel 2004 con l’articolo 40 della Legge finanziaria e successivamente nel 2009, erano state avviate discussioni politiche e studiati disegni di legge. Ma poi, venuta meno l’emergenza, l’opinione pubblica non si è più interessata al problema cosicché la classe politica lo ha «dimenticato», come fa con tutti i problemi scomodi.

 

Per concludere, attraverso le polizze assicurative ci sarebbe una distribuzione uniforme del costo dei rischi con un effetto per così dire solidaristico; le tecniche assicurative consentirebbero una stima equa dei danni e dei conseguenti risarcimenti; i danni ai beni dei privati verrebbero coperti da imprese private che si basano su meccanismi di mercato, lasciando all’intervento pubblico le spese di primo soccorso e di ripristino dei luoghi pubblici. Ci sembrano motivi che renderebbero utile e vantaggiosa una riflessione del governo sul tema e soprattutto un’azione decisa e concreta. (riproduzione riservata)

*partner studio legale Carnelutti