Oggi il 50% dei contribuenti dichiara meno di 23 mila euro all’anno e versa 3-6 mila euro di contributi. Che si tradurranno in una pensione inferiore al vecchio milione E se l’economia non accelera l’assegno scenderà ancora. Ecco le ricette salva rendita 

di Roberta Castellarin e Paola Valentini

La pensione pubblica? Certa, ma povera e strettamente legata alla salute dell’economia. E con queste premesse, se si guarda agli indicatori dell’ultimo decennio, c’è da mettersi le mani nei capelli. Con il passaggio dal metodo retributivo a quello contributivo la rendita futura dipenderà da quanto il lavoratore sarà in grado di versare e dal ritmo di sviluppo dell’Italia nel periodo di contribuzione.

Oggi, per esempio, le proiezioni sull’assegno pubblico sono fatte in base a una crescita del pil dell’1,5%, ma negli ultimi dieci anni il tasso è stato inferiore all’1%. Una differenza di questo tipo è in grado di abbassare la rendita attesa anche del 10%. E quindi il tasso di sostituzione, oggi stimato al 60%, senza una vigorosa inversione di tendenza potrebbe scendere al 50%. Ne consegue che se le riforme degli ultimi anni hanno messo in sicurezza la spesa previdenziale dello Stato, ora tocca ai lavoratori attrezzarsi per godere di un assegno dignitoso una volta che si ritireranno. «Dal rischio Stato si è passati oggi al rischio lavoratore», avverte Marco Nicolai di Finlombarda, sfogliando i risultati dello studio che ha appena ultimato sul futuro della previdenza. Nicolai in occasione del convegno su «Giovani e previdenza» organizzato da Comunità e Impresa ha presentato alcune proiezioni da allarme rosso.

Secondo queste stime un giovane che inizia a lavorare oggi, andrà in pensione tra 40 anni con un assegno che non supererà la metà dell’ultimo stipendio. C’è da osservare poi che la riduzione delle prestazioni pubbliche sarà particolarmente drastica per donne, lavoratori autonomi per chi avrà carriere contributive corte o discontinue.

«Dalle nostre simulazioni un numero sempre crescente di lavoratori pensionati riceveranno un assegno più basso di quello sociale, che come si sa è il principale indicatore di povertà (oggi pari a 417 euro, ndr). Nel 2010 sono rientrati in questa categoria l’8% dei pensionati, nel 2050 saranno il 35%. Questo significa che il sistema pensionistico pubblico non riesce a garantire al tempo stesso la sostenibilità finanziaria e l’adeguatezza delle prestazioni», dicono all’unisono Carlo Mazzaferro e Alessandro Magi, autori, per l’università di Bologna, di una ricerca sulle pensioni di scorta. Proprio i giovani, che sono la categoria maggiormente a rischio perché più precari, «non si stanno premunendo e in questo modo il divario tra garantiti ed esclusi si allarga sempre più pericolosamente», aggiunge Nicolai. Lo scorso autunno lo stesso presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua, riferendosi alla cosiddetta busta arancione, il documento che avrebbe dovuto fornire le proiezioni dell’assegno futuro, confessò dal palco di un convegno: «Se dovessimo dare la simulazione della pensione ai parasubordinati rischieremmo un sommovimento sociale».

Eppure, nonostante questo sconfortante panorama a fine 2010 poco più del 20% dei lavoratori italiani ha aderito alla previdenza complementare, ma solo il 10% degli under 35 ha un fondo pensione. «Perché le categorie meno protette non ci pensano? Non sanno cosa fare non si fidano, non possono?», si chiede Nicolai.

Secondo un sondaggio Eupolis il 70% dei lavoratori che non ha aderito a un fondo pensione non ha mai preso in considerazione l’ipotesi di farlo e quel 30% che pure lo vorrebbe, non aderisce a causa della precarietà del lavoro. Complessivamente risulta in condizione precaria il 38% del campione esaminato, mentre un altro 25% percepisce un reddito troppo basso e quindi non riesce a risparmiare. Ma a destare ancora più preoccupazione sono le motivazioni di chi non ha mai pensato di iscriversi a un fondo pensione, la maggioranza ritiene che sia ancora troppo presto per iniziare a pensarci (39%) e una quota di poco più bassa (27%) ammette di ignorare totalmente che cosa sia la previdenza integrativa. Risultati analoghi emergono anche da un sondaggio tra giovani dai 16 ai 25 anni realizzato da Swg, sempre per il convegno di Comunità e Impresa. In questo caso il 53% si definisce non ben informato in tema di previdenza sociale, anche se il 77% teme che da vecchio non percepirà una pensione adeguata e addirittura il 40% ha paura di non riuscire proprio ad avere alcun assegno. Non solo. Il tasso di disoccupati nel campione supera il 25% e la metà di chi lavora lo fa in nero. Facile quindi capire i bassi tassi di adesione dei giovani alla previdenza complementare.

In questo quadro, viste le regole di rivalutazione del montante già ricordate, la variazione del Pil diventa una variabile fondamentale per determinare il montante finale. Una bassa crescita dell’economia si ripercuote sinistramente sull’assegno finale. Lo dimostra una simulazione sviluppata da Progetica per MF-Milano Finanza e riportata in un grafico nella pagina precedente. Ebbene, un lavoratore che oggi ha 30 anni e che andasse in pensione a fine carriera nel 2047, percepirebbe un assegno lordo di 1.680 euro nel caso durante il suo periodo di contribuzione la crescita media si sia mantenuta all’l’1%, lo stesso assegno con un tasso di crescita dell’1.5% salirebbe a 1.858 euro lordi, mentre con un pil fisso allo 0,5% la pensione si ridurrebbe a 1.530 euro al mese.

«Poiché non esistono previsioni giuste o sbagliate sull’andamento del pil nei prossimi anni, così come sugli scenari demografici, ci sembra giusto adottare delle logiche da busta arancione, rappresentando con intervalli di oscillazione la prestazione pensionistica attesa, per maggiore consapevolezza dei cittadini. All’approssimarsi del momento del pensionamento, l’ambito di oscillazione verrà infatti progressivamente a ridursi», spiega Andrea Carbone di Progetica. Sempre Progetica ha analizzato l’impatto che potrebbe avere la riforma dei contributi integrativi per i professionisti, approvata all’unanimità alla Camera.

«La norma prevede due principi. Lascia alle Casse professionali la discrezionalità di fissare il contributo integrativo in una misura variabile tra il 2 e il 5%. Sempre le Casse potranno destinare parte di tale incremento al montante contributivo degli iscritti», ricorda Carbone. Per come è formulata la norma, pertanto, ogni decisione viene demandata ai regolamenti e agli statuti delle singole Casse. La proposta di legge sembra spostare sui cittadini, clienti dei professionisti, l’onere di aumentare i contributi che confluiranno alla Cassa previdenziale e che, in parte, un giorno diventeranno pensione per i professionisti.

La simulazione di Progetica, come al solito, prevede diverse classi d’età per il campione di professionisti (da 25 a 40 anni), e ipotizza che dell’incremento del contributo integrativo, l’1% venga destinato al montante individuale. Poiché ogni cassa professionale ha differenti modalità di calcolo, sono state prese in esame due sole aliquote contributive (10 e 20%), considerandole costanti per l’intera carriera e a queste è stato applicato l’incremento di un punto percentuale dal 2011. Il risultato? «Percentualmente l’impatto dell’incremento è maggiore per chi è più lontano dalla pensione perché è superiore il tempo di capitalizzazione», dice Carbone, ma in termini assoluti chi andrà in pensione più in là negli anni prenderà un assegno più basso. Lavoratori dipendenti o professionisti, la ricetta non cambia: serve una pensione di scorta. (riproduzione riservata)