RORY CAPPELLI

Roma – Quarantasei milioni. Tanto ha pagato «a saldo e stralcio di qualsiasi pretesa, inclusi interessi e costi» JpMorgan Chase Bank a Poste Italiane per un contenzioso iniziato presso il Tribunale di Roma nel giugno 2004, poi approdato per competenza davanti alla English Court di Londra nel 2009. E infine concluso con l´accordo, coperto da segretezza, che ha visto rientrare nelle casse dell´azienda italiana la metà della somma che i vertici di Poste avevano affidato alla multinazionale finanziaria che li aveva a sua volta investiti in operazioni rischiose e titoli tossici, per un totale di 242 operazioni, in gran parte swaption. L´azione legale era stata la prima grande causa avviata in Italia per l´uso di questi strumenti finanziari. Non solo. «Siamo di fronte anche per l´importo – ha detto in udienza il magistrato contabile Massimiliano Minerva della Corte dei Conti riferendosi all´accordo – a uno dei più significativi riconoscimenti impliciti, a livello mondiale, di responsabilità nella negoziazione di questi strumenti, nonché, di conseguenza, della loro intrinseca valenza speculativa». In sostanza, JpMorgan aveva negoziato derivati «evidentemente speculativi», per conto di Poste Italiane nel periodo gennaio 1999-2003, che aveva chiesto la risoluzione anticipata proprio per la tossicità dei titoli. L´allora direttore dell´area finanza di Poste Italiane, Massimo Catasta, è adesso in attesa della sentenza della Corte dei Conti, che lo ritiene responsabile diretto della vicenda. Poste Italiane, infatti, è azienda controllata dal governo e proprio per la sua natura statale non può partecipare ad operazioni speculative, «potenzialmente dannose, e quindi rischiose per l´Ente». Eppure Catasta, oltre alle 242 operazioni con JPMorgan, ne aveva autorizzate altrettante, per un totale di 540 e perdite per 104 milioni di euro (come allora segnalato dal revisore Price Waterhouse) con altri operatori mondiali come Bear Stearns, Bank of America, Commerzbank, The Royal Bank of Scotland, e anche Lehman Brothers.
Il presidente della Corte dei Conti Salvatore Nottola insieme con il relatore Annunziata Francioso, dovrà stabilire se, come ritengono i magistrati contabili, Catasta «abbia gravemente sbagliato perché ha volontariamente e consapevolmente sottoscritto e negoziato non derivati standard, i cosiddetti plain vanilla o simili, ma al contrario derivati speculativi, con forte contenuto opzionale di notevole complessità e tutto questo senza preoccuparsi delle conseguenze e anzi non organizzando o acquisendo neanche gli strumenti per valutare compiutamente il rischio».