I compensi dei supermanager delle società del Ftse Mib continuano a lievitare. Ma non sempre sono meritati. Specie se confrontati ai conti annuali e alle performance di Borsa

di Carla Di Marzo – 22-04-2011

Conti alla mano anche nel 2010 gli stipendi dei supermanager continuano a fare scintille. Una conferma che arriva anche dallo studio effettuato da The European House-Ambrosetti, che ogni anno conduce una ricerca sul tema. Ma non sempre si tratta di compensi più che meritati. Specie se chi ha incassato il suo ricco bottino non è poi riuscito a timonare in modo adeguato la propria azienda. Qualche esempio? Facile. Basta partire dal caso più eclatante: Alessandro Profumo, ex amministratore delegato del gruppo Unicredit, che a fronte di un supercompenso di oltre 40 milioni di euro (seppur 38 dati come liquidazione) non ha evitato all’istituto di Piazza Cordusio di fare un brusco capitombolo in Borsa e nel bilancio. Non solo. Fulvio Conti, amministratore delegato e direttore generale di Enel, ha intascato un compenso di quasi 5 milioni a fronte di utili aziendali che nel periodo sono crollati del 21% (a 4.390 milioni) mentre le quotazioni di Borsa hanno lasciato sul campo il 7,6 per cento. E ancora. Pier Francesco Guarguaglini, presidente e amministratore delegato di Finmeccanica, ha incassato un assegno di oltre 4 milioni di euro mentre il gruppo subiva una disfatta: -22,42% i profitti e -24% le quotazioni di mercato. Insomma, stessa squadra stessa musica: «Mentre i vertici si alzano lo stipendio, i profitti aziendali scendono – ricordava già nel 2009 lo studio Ambrosetti – In media le 40 regine di Piazza Affari meritano un sei politico in corporate governance. Si applicano, seguono i codici di autodisciplina, ma potrebbero fare di più, sia per comunicare con gli azionisti sia per adeguare alla realtà non sempre felice del mercato i compensi dei propri vertici». Una sorta di deja vu. Anche per questo Consob e Bankitalia hanno preso l’iniziativa di correre ai ripari. Ma facciamo un passo indietro.

I PAPERON DE’ PAPERONI. A portare lo scettro lo scorso esercizio è stato indubbiamente Profumo, che dopo essere rimasto per 13 anni alla guida di Unicredit, il 21 settembre ha lasciato il timone della banca (prima in Italia per valore patrimoniale), intascando come già detto 40,59 milioni di euro lordi, di cui 38 a titolo di liquidazione e 2,59 come compenso. Una somma considerevole che va comunque spalmata sull’intero periodo, mentre stringendo il raggio d’azione al solo 2010 le considerazioni in effetti cambiano. Dal primo gennaio al 31 dicembre, infatti, il titolo dell’istituto milanese ha visto la quotazione passare da 2,28 euro a 1,54, perdendo in Borsa il 31% del suo valore (a fronte di un calo del comparto bancario europeo dell’11,5%), mentre l’utile netto ha registrato un tonfo del 22%, scivolando a 1.323 milioni dai 1.702 del 2009. Numeri su cui hanno pesato le svalutazioni delle partecipazioni in Ucraina e Kazakistan (alcuni tra i Paesi maggiormente toccati dalla crisi), oltre che l’esposizione sul mercato nazionale, «dove – spiega Andrea Vercellone, analista bancario di Exane Bnp Paribas – la copertura dei prestiti in sofferenza si è attestata intorno al 42%». Ma torniamo ai super ricchi. Sul secondo gradino del podio, subito dopo Profumo, si trova Luca Cordero di Montezemolo, attuale presidente della Ferrari e fino al 21 aprile 2010 anche presidente del gruppo Fiat da cui, per la sua buonuscita, ha intascato 1 milione di euro su un compenso totale di 8,7 milioni (3 milioni in più rispetto al 2009). A ben guardare più del doppio di quanto incassato dall’amministratore delegato del Lingotto, Sergio Marchionne, che l’anno scorso ha ottenuto 3,4 milioni (scendendo dai 4,78 milioni percepiti nel 2009). E che peraltro rappresenta il vero protagonista della crescita della casa torinese. La pagella? Entrambi promossi. In Borsa nel 2010 il valore del titolo Fiat (quotato in modo aggregato, lo spin off dell’Industrial è di gennaio 2011) è infatti volato del 50% mentre a livello di conti i ricavi sono balzati del 12,29% a 56.258 milioni, a fronte di un conto economico tornato in utile per 600 milioni dal rosso di 848 del 2009. Risultati su cui molto, anzi moltissimo ha fatto proprio la scissione del gruppo in Fiat Spa e Fiat Industrial, operazione avvenuta appunto a gennaio del 2011 ma già scontata dal mercato nel 2010. Promosso anche Marco Tronchetti Provera, che nello scorso esercizio ha guadagnato ben 5,95 milioni di euro nel ruolo di presidente di Pirelli e Pirelli Tyre. Cui si aggiungono 395.000 euro come presidente di Prelios e 225.000 come consigliere di Mediobanca. Un compenso meritato, se si considera che nel 2010 il gruppo ha rappresentato una delle migliori storie sul mercato. In Borsa il valore azionario è infatti salito quasi del 40%, «soprattutto – rimarca Alessandro Frigerio, gestore di Rmj Sgr – per via della decisione del gruppo di concentrarsi nel settore degli pneumatici, da sempre core business della società». Ma anche trainato dalla consistente presenza sui mercati emergenti. A livello di bilancio la società ha infatti terminato l’esercizio con utili positivi per 4,2 milioni dal negativo di 22,6 archiviato nel 2009. Pioggia di voti negativi, invece, per tutti i leader degli istituti finanziari. Così, Cesare Geronzi, che nel periodo in questione ha sommato alla presidenza di Mediobanca (tenuta dal primo luglio 2009 al 25 aprile 2010) quella di Generali, ha incassato un assegno totale superiore ai 5 milioni. Mentre il gruppo del Leone ha lasciato sul parterre il 24,50 per cento. In linea con la performance di Corrado Passera, amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, che nel 2010 ha ottenuto un compenso di 3,5 milioni per portare la capitalizzazione dell’istituto a svalutarsi di quasi il 36%. E ancora Renato Pagliaro, presidente di Mediobanca (dal 10 maggio del 2010), pur intascandosi 2,55 milioni, ha lasciato cadere gli utili dell’istituto di Piazzetta Cuccia ben del 2,67% (e quasi del 20% in Borsa). Mentre Giuseppe Mussari (0,713 milioni), Massimo Ponzellini (0,658 milioni) e Corrado Faissola (0,564 milioni), rispettivamente presidenti di Mps, Bpm e Ubi, nel 2010 hanno visto i loro titoli crollare in media del 40 per cento. Dunque tutti bocciati. Tanto che anche Consob e Bankitalia hanno pensato di correre ai ripari.