Undici miliardi di euro di partecipazioni quotate per Intesa, Mps, Unicredit, Banco Popolare, Mediobanca, Generali e Premafin

di Redazione – 22-04-2011

RICAPITALIZZAZIONI AL VIA Circa 11 miliardi di euro. Tanto vale ai prezzi di mercato il salotto buono di Piazza Affari. O almeno una parte di esso. Quello che fa capo agli istituti di credito Intesa Sanpaolo, Unicredit, Banco Popolare, Monte dei Paschi di Siena, Mediobanca, alla compagnia assicurativa Generali e a Premafin, holding della famiglia Ligresti. Una cifra consistente tanto più che rappresenta solo una piccola parte, quella quotata per l’appunto, degli asset patrimoniali detenuti da gruppi bancari e compagnie assicurative italiane che sono anche spesso azioniste di aziende accanto agli enti locali, oltre che agli imprenditori. Eppure, nonostante si tratti di una somma importante in un clima incandescente per via delle rischieste di maggiore patrimonializzazione di banche e assicurazioni richiesto da Basilea III e da Solvency II, nessuno ne ha mai messo in discussione la taglia. A parte Generali e Premafin, che si trovano rispettivamente al centro di una battaglia di potere e di un’operazione di salvataggio. Per la prima infatti è stato Diego Della Valle a domandare la vendita di asset non strategici come la quota in Rcs, per la seconda invece è stata Mediobanca a chiedere la cessione di pacchetti di azioni all’interno di una più ampia strategia di risanamento. Al di là dei casi specifici il comparto assicurativo appare comunque meglio capitalizzato di quello bancario, anche in virtù dei grandi patrimoni immobiliari. «Basta guardare alla prima parte dell’attuale crisi per vedere che sono fallite nel mondo più di 200 banche e nessuna assicurazione, benché i problemi non siano mancati per giganti come Aig e Swiss Re», sottolinea a tal proposito Fabrizio Croce, analista di Kepler Capital Markets Zurigo.
Tutt’altro discorso per le banche, che stanno fronteggiando aumenti di capitale stratosferici. Finora, infatti, dai principali istituti di credito italiani sono state annunciate operazioni straordinarie sul capitale che complessivamente superano quota 11 miliardi di euro, inclusi i 2 miliardi raccolti da Banco Popolare tra gennaio e febbraio. Di questa cifra la parte più consistente è di Intesa, che chiede al mercato 5 miliardi di euro, poco meno di un quinto della capitalizzazione di Borsa. Eppure nel portafoglio della banca guidata da Corrado Passera ci sono oltre 300 milioni di partecipazioni in società quotate (e dunque facilmente liquidabili) la cui dismissione potrebbe forse favorire la patrimonializzazione dell’istituto e ridurre l’impegno chiesto al mercato per gli aumenti di capitale. Non sarebbe stato forse meglio una razionalizzazione dei portafogli di partecipazioni? Prendendo magari spunto da industriali come Carlo Pesenti, che proprio in questri giorni ha annunciato che Italcementi ha «incassato 500 milioni dalla cessione di attività marginali che non portavano valore» e che «cercheremo di fare altre cessioni nel corso dell’anno perché ci sono attività marginali per noi che invece possono essere di valore per altri operatori». Naturalmente laddove questo è possibile evitando sgradite minusvalenze. «Cedere asset non strategici sarebbe stato evidentemente più facile, ma politicamente meno interessante – continua Croce – Le scelte d’investimento di molte società italiane rimangono legate purtroppo a interessi meramente politici più che economici. Avere un ampio portafoglio di partecipazioni strategiche non ha senso e non averlo non significa precludersi la possibilità di prendere posizioni su potenziali opportunità di crescita per linee esterne». L’incentivo che gli investitori stranieri chiedono a Piazza Affari è insomma un cambiamento di mentalità capace di dinamizzare il mercato e di rendere più libero il sistema economico del Paese. Tutto questo senza escludere evidentemente la possibilità di interventi come «banche di sistema» nel salvataggio di imprese oggetto di attenzioni straniere come nel caso Parmalat. Il tema è caldo, forse più di quanto si possa immaginare dal momento che, secondo le stime di Bankitalia, gli istituti bancari italiani avrebbero complessivamente bisogno di ben 40 miliardi di euro. Quindi gli aumenti di capitale annunciati dovrebbero essere solo l’inizio.
«A causa del basso livello di capitalizzazione delle banche italiane (7,1% contro il 9,6% per le banche europee in media), pensiamo che nessuna di esse, con l’eccezione di Credem, riuscirà a raggiungere i requisiti minimi di capitale richiesti dalla road map di Basilea III entro il 2013, senza interventi specifici», ha sottolineato Andrea Vercellone, analista specializzato sulle banche di Exane Bnp Paribas. Salvo poi prevedere una via d’uscita per Unicredit a patto di «riorganizzare gli asset posseduti, uscendo a esempio da alcuni mercati della Comunità Europea, vendendo Pioneer e, in generale, razionalizzando i suoi risk-weighted asset».
Fra gli esperti del settore c’è poi chi pensa che, in effetti, per raggiungere gli obiettivi imposti da Basilea III siano possibili diverse strade: «Fermo restando che l’aumento di capitale è fondamentale per rendere più solide le banche a choc esogeni ed endogeni, ogni istituto può raggiungere tale obiettivo in modo diverso – ha precisato Cyril Parison, responsabile della ricerca fixed income di Exane Derivatives – E, come evidenziato negli ultimi mesi, la cessione di attivi che permette di liberare capitale è l’opzione cui molte banche stanno facendo ricorso. Un’altra soluzione potrebbe ovviamente essere la riduzione del dividendo, per accantonare una maggiore quota di utili a riserva». In altre parole sarebbe auspicabile la riduzione delle quantità di denaro che le banche ogni anno versano ai soci. Strada anche questa difficilmente percorribile in Italia visto il groviglio di relazioni economiche espresso dal portafoglio delle partecipazioni bancarie e dal salotto buono di Piazza Affari.

RELAZIONI PERICOLOSE. Oltre alle quote incrociate a PIazza Affari, ci sono per tutti rivoli di rapporti che emergono dalle relazioni annuali. Il costrutture Francesco Gaetano Caltagirone, socio e vicepresidente di Mps, ad esempio, fa affari con la banca presieduta da Giuseppe Mussari attraverso la Fabrica Immobiliare sgr spa, joint venture al 50,01% di Caltagirone attraverso la Fincal spa e al 49,99% di Mps tramite Mps Investments spa. Che a marzo 2010 ha ricevuto una linea di credito fondiaria-edilizia per 36,5 milioni, cui due mesi dopo si sono aggiunti altri 16,5 milioni. Intesa, invece, lo scorso esercizio ha pagato emolumenti (esclusi bonus e altri compensi) a ben 45 persone (contro i 33 di Unicredit) fra consiglio di sorveglianza e consiglio di gestione per un totale di 21,36 milioni di euro (contro gli appena 6,2 di Unicredit, esclusa naturalmente la maxiliquidazione da 40 milioni dell’ex ad Alessandro Profumo). Fra questi, per l’incarico di consigliere di sorveglianza di Carlo Barel di Sant’Alban sono stati versati 50mila euro direttamente nelle casse della Exor degli Agnelli. Senza contare partite più celebri come Telco, la holding di controllo di Telecom Italia, o ancora il salvataggio del gruppo immobiliare Risanamento. Ovvero, per Unicredit, l’intervento a favore di Premafin verso la quale la banca di Federico Ghizzoni è esposta per circa 350 milioni (a parte il prestito subordinato di Mediobanca su Fonsai per 1 miliardo). Insomma, alla fine, a bocce ferme, come ammette Parison, è innegabile che i soli aumenti di capitale per salvare il sistema e mantenere lo status quo «determineranno un rialzo del costo del finanziamento. E a pagare saranno sia i risparmiatori che i corporate». Nella migliore delle ipotesi. Perché nel caso di una nuova pesante crisi, che oggi appare difficile poter prevede
re, potrebbe nuovamente ripetersi la necessità di intervento degli Stati, come già accaduto in Irlanda, in Gran Bretagna e in Francia. E allora a pagare saranno tutti i cittadini. Investitori e non.