RC MEDICA

Autore: Marco Rossetti
ASSINEWS 362 – Aprile 2024

Ma restano dubbi sull’immediata operatività dell’azione diretta

1.Una Grida fresca
Sulla Gazzetta Ufficiale di venerdì 1° marzo (San Felice III papa, persecutore dell’eresia monofisita: chissà se questa data ha un senso occulto) è stato finalmente pubblicato il decreto ministeriale che ha dato attuazione alla delega contenuta nella legge 8.3.2017 n. 24.

Si tratta della legge che, disciplinando (e in qualche caso sconvolgendo) la materia della responsabilità civile dei medici e degli ospedali1, ha dettato un cospicuo set di norme anche in materia di assicurazione della responsabilità civile degli uni e degli altri2.

In particolare la legge, dopo avere stabilito chi e cosa avesse la facoltà o l’obbligo di stipulare un’assicurazione a copertura della responsabilità civile, delegò il Ministero per lo Sviluppo Economico (oggi, Ministero delle imprese; olim, Ministero dell’industria; ma comunque mutato nomine, fabula de te narratur), con proprio decreto:

a) a stabilire “i requisiti minimi” dei contratti di assicurazione della r.c. di medici ed ospedali pubblici e privati;

b) ad individuare “classi di rischio a cui far corrispondere massimali differenziati”;

c) a stabilire “le regole per il trasferimento del rischio nel caso di subentro contrattuale di un’impresa di assicurazione” (sic!).

Questo decreto si sarebbe dovuto emanare entro 90 giorni dall’entrata in vigore della legge, e dunque entro il 15.6.2017. Di giorni invece ne sono passati duemilaquattrocentocinquantuno, ovvero sette anni, cinque governi (Gentiloni, Conte I, Conte II, Draghi, Meloni) e tre legislature (XVII, XVIII e XIX), il che propriamente non è un bell’esempio di rispetto per la legge da parte delle Istituzioni.

Questi sette anni di ritardo hanno comportato la sostanziale inapplicabilità della legge nella parte concernente il diritto delle assicurazioni, e di conseguenza da un lato sostanziale libertà delle parti nel determinare il contenuto delle polizze; dall’altro impossibilità per le vittime di danni causati da medici ed ospedali di proporre l’azione di risarcimento direttamente nei confronti dell’assicuratore3.

Ma l’attesa per l’attuazione della legge non può dirsi ancora finita: i contratti di assicurazione della r.c. sanitaria dovranno infatti essere resi conformi alle nuove regole entro 24 mesi dall’entrata in vigore del d.m. 232/23, e dunque entro il 16.3.2026, dal momento che il decreto è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 1° marzo 2024.

Un tempo sufficientemente lungo4 per presagire altri colpi di scena nella neverending story della r.c. medica e della sua assicurazione. Nel presente scritto cercherò di illustrare le regole introdotte dal decreto, e in qualche caso i problemi che esse porranno agli interpreti.

2. Ma chi deve assicurarsi?
Ma queste polizze “nuove” di assicurazione r.c. medica chi ha l’obbligo di stipularle? E’ molto semplice: nessuno. Non l’assicuratore, perché la legge 24/17 non prevede un obbligo di contrattare.

L’assicuratore resta dunque libero di accettare o rifiutare le proposte contrattuali di medici e strutture sanitarie. Non i medici, i quali restano liberi di assicurare la propria responsabilità civile se, quando e come vogliono.

L’unico obbligo che la legge ha imposto ai medici è quello di stipulare una polizza di assicurazione a copertura – si badi – non già della propria responsabilità civile nei confronti dei pazienti, ma a copertura del proprio debito di regresso nei confronti dell’ospedale che, risarcita la vittima d’un errore commesso dal medico, abbia intenzione di recuperare da quest’ultimo, ex art. 1299 c.c., quanto pagato (così stabilisce l’art. 10, comma 3, l. 24/17). Infine, nessun obbligo di assicurazione vige nemmeno per gli ospedali.

Questi, infatti, hanno una facoltà e non un obbligo: o stipulare un contratto di assicurazione, oppure accantonare somme di denaro (coi criteri e nella misura stabiliti dal decreto qui in commento, dei quali però qui non mi occuperò) per far fronte ad eventuali richieste risarcitorie5.

3. Conclusione del contratto
Nessuna regola particolare è dettata dal d.m. 232/23 sulla conclusione del contratto. Restano ferme dunque le regole generali sullo scambio di proposta ed accettazione, sul pagamento del premio quale condizione di efficacia (art. 1899 c.c.), sulla forma scritta (art. 1888 c.c.), sulla sospensione dell’efficacia dopo 15 giorni dalla scadenza della rata di premio (art. 1901 c.c.).

Ovviamente restano fermi anche gli obblighi informativi precontrattuali a carico degli intermediari, e qui dobbiamo spendere qualche parola in più.

Le sezioni unite della Corte di cassazione, chiamate a comporre i contrasti sulla liceità (ex art. 1418 c.c.) e sulla meritevolezza (ex art. 1322 c.c.) della clausola claims made, hanno stabilito che quella clausola non è nulla in linea generale, né immeritevole di tutela ex art. 1322 c.c., ma che potrebbe nel singolo caso concreto incidere sulla causa del contratto, rendendolo nullo.

Ciò si verificherebbe, in particolare, quando il contratto cui è apposta quella clausola non sia adeguato alle esigenze dell’assicurato, e se ne è tratto il corollario che è obbligo dell’intermediario illustrare compiutamente all’assicurando la natura e gli effetti della clausola (Cass. civ., sez. un., 24-09-2018, n. 22437, in Foro it., 2018, I, 3015).

Nell’assicurazione della r.c. medica, tuttavia, che il contratto debba essere stipulato con la formula “claims made” è ora stabilito dalla legge, e ribadito dall’art. 5, comma 1, d.m. 232/23 [“la garanzia assicurativa è prestata nella forma «claims made», operando per le richieste di risarcimento presentate per la prima volta nel periodo di vigenza della polizza e riferite a fatti generatori della responsabilità verificatisi in tale periodo e nei dieci anni antecedenti (…)”].

Più oltre ci occuperemo del significato di questa formula. Ora però iniziamo col chiederci: la circostanza che una determinata clausola contrattuale sia imposta dalla legge, esonera l’intermediario dall’obbligo di spiegarne gli effetti all’assicurando? Si potrebbe rispondere “sì”, argomentando dal fatto che la legge si deve presumere nota a tutti, e che non può addossarsi all’intermediario l’onere di illustrare all’assicurando ogni e qualsiasi norma di legge.

Si potrebbe però anche rispondere “no”, argomentando dal fatto che già oggi la elefantiaca e farraginosa produzione normativa sugli obblighi di informazione precontrattuale gravanti sull’intermediario fa carico a quest’ultimo di illustrare al cliente regole e princìpi già stabiliti direttamente dalla legge (si vedano ad es. gli artt. 119, 183 e 185 cod. ass.; nonché gli artt. 41 e ss. reg. IVASS 41/18).

Io credo che a questo dubbio debba rispondersi come segue: l’intermediario ha l’obbligo di informare l’assicurando anche degli obblighi scaturenti dalla legge, se la legge (così come interpretata dal giudice di legittimità) glielo imponga.

La violazione di tale obbligo ha tuttavia rilevanza solo sul piano disciplinare e non civilistico. L’ovvietà dell’informazione infatti non esonera l’intermediario dal fornirla, se glielo imponga la legge.

Diversamente, la legge verrebbe abrogata per via interpretativa, e questo non è consentito. Tuttavia il non riferire all’assicurato circostanze note, oppure ovvie, oppure stabilite direttamente dalla legge, se da un lato costituisce il venir meno dell’intermediario ai doveri imposti dalla legge e quindi teoricamente è una condotta disciplinarmente rilevante, ben difficilmente il deficit informativo potrà produrre conseguenze civilistiche sul contratto.

Si prenda ad esempio l’ipotesi in cui il prospetto informativo del contratto o l’intermediario non spieghino all’assicurando che, se tace il vero o dice il falso in merito alle circostanze del rischio, perderà l’indennizzo (art. 166 cod. ass.).

Se l’assicurato è stato reticente, potrà ugualmente pretendere l’indennizzo? Certo che no, dal momento che la perdita dell’indennizzo è stabilita dalla legge (art. 1892 c.c.), e sarebbe una ben strana legge quella che s’applicasse solo se la sua esistenza fosse stata previamente riferita a chi deve obbedirla.

Alla luce di questo criterio deve concludersi che l’intermediario avrà l’onere di informare il medico degli effetti della clausola claims made, perché così impongono l’art. 166 cod. ass. e la Cass. sez. un. 22437/18, cit., a nulla rilevando che la clausola sia ora imposta dalla legge.

La violazione di tale obbligo tuttavia non potrà causare la nullità del contratto né un vizio del consenso, perché i contratti di assicurazione della r.c. medica non possono che essere stipulati con clausola claims made, sicché quand’anche fosse stato informato l’assicurando non avrebbe avuto opzioni diverse. Il deficit informativo potrà però, nel concorso dei restanti presupposti di legge, eventualmente essere fonte di responsabilità disciplinare per l’intermediario.

4. Contenuto del contratto
Il d.m. 232/23 ha dettato molte regole sul contenuto del contratto, riguardanti:
A) La durata della garanzia
B) L’estensione della garanzia
C)La misura del massimale
D) La misura del premio
E) Il processo

Le esaminerò in quest’ordine, pregando il benevolo lettore di scusarmi per la stringatezza, imposta dai limiti del presente scritto.

A) La durata della garanzia
I contratti di assicurazione della r.c. medica dovranno essere stipulati con una clausola claims made “temperata” (art. 5 d.m. 232/23). Essi infatti copriranno la responsabilità dell’assicurato a due condizioni:
a) che il fatto illecito sia stato commesso dall’assicurato o durante la vigenza del contratto, oppure nei dieci anni precedenti la stipula;
b) che il terzo danneggiato chieda all’assicurato il risarcimento del danno o durante la vigenza del contratto, oppure nei dieci anni successivi alla cessazione definitiva – per qualsiasi causa – dell’attività professionale del medico.

A completamento di questa disciplina è previsto che, se l’assicurato rinnova la polizza con la medesima compagnia, “la garanzia assicurativa opera fin dalla decorrenza della prima polizza”: il che vuol dire che i dieci anni di copertura pregressa si calcoleranno non dalla stipula del nuovo contratto, ma dalla stipula di quello previgente e rinnovato. Esaminiamo ora un po’ più in dettaglio queste regole.

A.1) Il decreto ha stabilito che l’assicurazione della r.c. medica debba avvenire con formula claims made. Sarà dunque lecito stipulare un contratto con la cara vecchia regola (sempre vigente) di cui all’art. 1917, comma primo, c.c. (c.d. loss occurrence)? Dipende.

La clausola loss occurrence non è contraria alla legge, per l’ovvia ragione che è prevista dalla legge. Essa, inoltre, è più vantaggiosa per l’assicurato in tutti i casi in cui la richiesta di risarcimento da parte del terzo danneggiato gli pervenga:

a) dopo la cessazione del contratto, ed in assenza di rinnovo con la medesima compagnia, oppure
b) dopo il decennio dalla cessazione dell’attività professionale6. In questi casi, dunque, ben difficilmente potrebbe sostenersi la nullità d’una assicurazione della r.c. medica stipulata con clausola loss occurrence.

La conclusione cambierebbe nell’ipotesi in cui, stipulata una polizza secondo la regola tradizionale di cui al primo comma dell’art. 1917 c.c., l’assicurato venisse raggiunto da una richiesta di risarcimento per fatti commessi prima della stipula del contratto.

In tal caso l’assicurato non sarebbe garantito, e questo effetto contrasta con l’art. 5, comma primo, del d.m. 232/23, sicché per tale ipotesi il contratto dovrebbe ritenersi ef fettivamente nullo ex art. 1418 c.c., ed integrato ex art. 1374 c.c. dalla previsione della copertura c.d. “pregressa”.

A.2) Il contratto dovrà coprire la responsabilità dell’assicurato “per le richieste di risarcimento presentate per la prima volta nel periodo di vigenza della polizza e riferite a fatti generatori della responsabilità verificatisi in tale periodo e nei dieci anni antecedenti la conclusione del contratto assicurativo”. Questa previsione è senza dubbio illegittima per contrarietà alla legge delega.

Il decreto, infatti, come s’è appena visto, pone due condizioni per l’efficacia della copertura assicurativa “pregressa”. Una di queste è che all’assicurato sia presentata, nella vigenza della polizza, una “richiesta di risarcimento”.

Ma la legge 24/17 non stabiliva affatto questo. L’art. 11 della l. 24/17 stabiliva che il contratto coprisse “gli eventi accaduti nei dieci anni antecedenti la conclusione del contratto assicurativo, purché denunciati all’impresa di assicurazione durante la vigenza temporale della polizza”.

Quindi la legge subordinava la copertura assicurativa pregressa alla denuncia di sinistro fatta dall’assicurato; il decreto invece la subordina alla richiesta di risarcimento fatta dal terzo danneggiato.

Ora, immaginiamo che l’ultimo giorno di vigenza del contratto il medico o l’ospedale venga a sapere che un anno prima della sua stipula era morto un paziente in conseguenza d’un errore ad essi ascrivibile. Immaginiamo che i congiunti della vittima non abbiano ancora intrapreso alcuna iniziativa.

Cosa dovrebbe fare l’assicurato? Se badiamo al decreto, l’assicurato potrà fare solo una cosa: rinnovare la polizza col medesimo assicuratore (ammesso che quest’ultimo accetti). Se badiamo alla legge, invece, all’assicurato per invocare la garanzia sarà sufficiente denunciare il fatto all’assicuratore prima della scadenza del contratto, e non perderà la garanzia se decidesse di assicurarsi anche altrove.

Infine, sebbene il decreto non lo dica, va da sé che la responsabilità dell’assicurato per fatti commessi prima della stipula del contratto sarà garantita dall’assicuratore a condizione che, al momento della stipula, essi fossero stati ignorati senza colpa grave da parte dell’assicurato.

Diversamente, infatti, il contratto sarebbe annullabile ex art. 1892 c.c., non potendo dubitarsi che la consapevolezza, da parte dell’assicurato, di avere già causato un danno costituisce circostanza suscettibile di incidere sul rischio, rendendone estremamente probabile l’avverarsi: il rischio, infatti, è ravvisato dalla legge nella richiesta risarcitoria proveniente dal danneggiato, e non nell’errore medico7.

A.3) Il dies a quo di computo del termine di efficacia della copertura pregressa non è l’efficacia della polizza (che, ai sensi dell’art. 1899 c.c., sorge solo alle ore 24.00 del giorno in cui è stato pagato il premio, salva l’emissione d’una nota di copertura provvisoria), ma la stipula.

E il contratto di assicurazione, che per secolare prassi attribuisce all’assicurato la veste di offerente, è concluso nel momento in cui quest’ultimo riceve dall’assicuratore la notizia dell’avvenuta accettazione della proposta (art. 1326 c.c.).

A.4) Il d.m. 232/23 stabilisce che il contratto di assicurazione del medico copra la responsabilità per i fatti commessi prima o durante la vigenza della polizza anche quando la richiesta di risarcimento pervenga all’assicurato nel decennio successivo alla cessazione definitiva dell’attività.

Si tratta dell’erezione a dignità normativa della c.d. sunset clause, che potremmo definire “la vendita del sole d’agosto”: la regola infatti introduce (a pagamento) un effetto che per il codice civile era naturale nell’assicurazione della r.c., e lo prevedeva ed in ben più ampi termini nel primo comma dell’art. 1917 c.c..

A.5) Il decreto precisa che questa “ultrattività” della polizza per il decennio successivo alla cessazione dell’attività “è estesa agli eredi e non è assoggettabile alla clausola di disdetta”. Trattasi di previsione in parte inutile ed in parte umoristica.

È previsione inutile, perché il diritto di essere manlevato dall’assicuratore è un diritto di credito, e come tutti i diritti di credito in caso di morte del creditore si trasferisce agli eredi legittimi o testamentari (e ci mancherebbe che le regole millenarie del diritto successorio, per essere applicate, debbano essere ribadite da un decreto ministeriale!).

Legittimato a pretendere l’indennizzo nel caso di più eredi sarà ciascuno di essi, perché per i crediti ereditari non vale la regola dei debiti (nomina hereditaria ipso iure dividuntur): ma nel caso di richiesta avanzata da un solo erede il pagamento fatto dall’assicuratore cadrà in comunione e dovrà essere diviso secondo le quote ereditarie. Naturalmente, per la stessa ragione, l’assicuratore sarà liberato col pagamento anche ad uno sollo degli eredi, che abbia dichiarato di agire a nome della comunione.

La previsione sopra trascritta – sia consentito – è poi umoristica nella parte in cui prevede che l’ultrattività della polizza dopo la cessazione dell’attività professionale “non è assoggettabile alla clausola di disdetta”.

Se infatti un medico stipula un’assicurazione della responsabilità civile professionale, e poi cessa definitivamente l’attività, il contratto si scioglie per cessazione del rischio (art. 1896 c.c.), e mi riesce difficile comprendere come possa darsi disdetta da un contratto ormai inesistente.

Probabilmente il legislatore intendeva stabilire il principio per cui, se nel decennio successivo alla cessazione dell’attività dovessero pervenire all’assicurato plurime richieste di risarcimento, non è consentito prevedere che, dopo il pagamento del primo indennizzo, l’assicuratore possa rifiutare il pagamento dei successivi.

Ma a parte il fatto che quella in esame non sarebbe tecnicamente una “disdetta”, ma una clausola di esonero da responsabilità, quel che rileva è che la previsione di cui si discorre è una inutile duplicazione della identica regola stabilita dall’art. 6, comma 1, del medesimo decreto.

A.6) Il decreto mostra di ritenere che la regola della ultrattività valga solo per le persone fisiche (parla infatti di “eredi”). Ma ovviamente anche una clinica privata può cessare l’attività, ed anche una ASL o una azienda ospedaliera. Per queste ipotesi il decreto incorre in un vero e proprio “buco di copertura”, che andrà colmato in via interpretativa.

Nel caso delle pubbliche amministrazioni, normalmente la legge di soppressione stabilisce chi succeda all’ente soppresso nella titolarità di debiti e crediti: e ritengo che anche agli enti successori debba applicarsi per analogia la regola della ultrattività dettata dall’art. 5, comma 2, d.m. 232/23.

Nel caso di enti privati, ovviamente le società commerciali nel caso di liquidazione non hanno eredi, e i creditori sociali possono rivalersi solo nei confronti dei soci nei limiti di quanto ad essi pervenuto in virtù del bilancio finale di liquidazione.

Dunque, al contrario degli enti pubblici, le società commerciali non hanno un “successore” cui applicare in via analogica la regola dell’ultrattività. Ma se si ammette che quella regola sia stata dettata a tutela non solo dell’assicurato, ma anche del terzo danneggiato, non vedrei difficoltà ad estenderla anche alle società commerciali. Infatti le sezioni unite della

Corte di cassazione, componendo gli aspri contrasti precedenti, hanno stabilito tre princìpi generali in tema di effetti dell’estinzione della società, così riassumibili:

a) l’estinzione della società dà vita ad un fenomeno successorio;
b) dal lato passivo, tale successione comporta che dei debiti sociali rispondano i soci, nei limiti di quanto ad essi pervenuto per effetto del bilancio di liquidazione;
c) dal lato attivo, tale successione comporta che i crediti sociali risultanti dal bilancio di liquidazione si trasferiscono ai soci pro indiviso (Cass. civ., sez. un., 12-03-2013, n. 6070, in Giur. comm., 2014, II, 790).

In seguito, a corollario di questi princìpi, la S.C. ha chiarito che i crediti di una società commerciale estinta non possono ritenersi rinunciati per il solo fatto che non siano stati evidenziati nel bilancio finale di liquidazione, a meno che tale omissione non sia accompagnata da ulteriori circostanze tali da non consentire dubbi sul fatto che l’omessa appostazione in bilancio possa fondarsi su altra causa, diversa dalla volontà della società di rinunciare al credito (Cass. civ., sez. III ord. 14.12.2020 n. 28439).

Ora, se la società di gestione d’una clinica privata si estinguesse senza che il suo credito indennitario nei confronti dell’assicuratore risultasse dal bilancio di liquidazione, quel credito in virtù di quanto detto non può ritenersi per ciò solo rimesso o rinunciato. E se quel credito esiste, il terzo danneggiato potrà farlo valere – in caso di inerzia degli ex soci – anche in via surrogatoria ex art. 2900 c.c., nei confronti dell’assicuratore.

B) L’oggetto della garanzia
Il contratto di assicurazione della r.c. medica dovrà coprire obbligatoriamente la responsabilità delle strutture pubbliche e private per i danni causati da chiunque abbia operato al loro interno, anche se non dipendente.

Per le cliniche private, questa regola porrà fine ai “giochetti” di stipulare col personale medico contratti di prestazione d’opera simulati, che in realtà dissimulano veri e propri rapporti di lavoro subordinato. Infatti la natura del rapporto è irrilevante ai fini assicurativi: la clinica risponde dell’operato di chiunque operi al suo interno, e per tale responsabilità la clinica deve assicurarsi, salvo che non scelga la strada delle altre idonee misure (rectius, mettere da parte i soldi).

Per le ASL e le Azienda Ospedaliere (AO) che scelgano la strada dell’assicurazione, la polizza dovrà coprire:
a) la responsabilità dell’ospedale per fatto proprio;
b) la responsabilità dell’ospedale per fatto del medico dipendente o collaboratore occasionale;
c) la responsabilità della ASL per il fatto delle strutture private convenzionate;
d) la responsabilità della ASL per il fatto del medico operante in regime di intra moenia.

La copertura, inoltre, nel caso di responsabilità solidale dovrà tenere indenne l’assicurato per l’intero debito e non soltanto per la sua quota virile, salvo regresso verso gli altri coobbligati (art. 3, comma 6, d.m. 232/23).

C) La misura del massimale
I massimali minimi sono stabiliti dall’art. 4 del decreto, e variano da 1 a 5 milioni di euro, a seconda della qualità soggettiva dell’assicurato (ospedale, medico) e del rischio coperto (responsabilità civile o debito di regresso verso la struttura o l’erario).
È previsto che il ministro delle imprese “può” (ma non “deve”) aggiornarli ogni anno.

D) La misura del premio
L’art. 3, comma 7, del decreto, disciplina il meccanismo (singolare) del bonus malus voluto dalla legge. Stabilisce infatti che ad ogni scadenza contrattuale (con preavviso di almeno 90 giorni) l’assicuratore dovrà aumentare o diminuire il premio, “in relazione al verificarsi o meno di sinistri nel corso della durata contrattuale, avendo specifico riferimento alla tipologia e al numero di sinistri chiusi con accoglimento della richiesta”.

Stabilito ciò, così prosegue: “è inoltre prevista la variazione in diminuzione in relazione alle azioni intraprese per la gestione del rischio e di analisi sistemica degli incidenti. Le variazioni del premio di tariffa devono essere in ogni caso coerenti e proporzionate alla variazione dei parametri adottati per la definizione del premio stesso, anche tenuto conto del fabbisogno finanziario delle imprese assicuratrici”.

Quella appena trascritta è una norma “finta”.
Voglio dire che se per “norma” intendiamo una serie di parole di senso compiuto messe in fila su un atto approvato dagli organi a ciò preposti perché quelle parole abbiano efficacia generale e vincolante, allora l’art. 3, comma 7, d.m. 232/23 è una norma.

Ma se scire leges non est verba earum tenere, sed vim ac potestatem, è arduo comprendere quale sia la vis ac potestas della norma in esame.

Essa infatti lascia le parti libere di prevedere qualunque cosa.
Un aumento del premio potrebbe essere liberamente fissato in un euro per sinistro od in un milione di euro per sinistro. Il “riguardo alla tipologia”, poi è incomprensibile. Un grave errore del dietologo potrebbe essere privo di conseguenza, mentre l’errore lieve del cardiochirurgo potrebbe avere conseguenze fatali.

Le parti potranno dunque ancorare l’aumento del premio alla gravità della colpa (come sarebbe corretto) o all’entità del danno, senza temere di incorrere nella violazione del decreto. Un capolavoro di (im)precisione, poi, è la proposizione impersonale “è prevista la diminuzione” del premio “in relazione alle azioni intraprese per la gestione del rischio e di analisi sistemica degli incidenti”. Una norma di questo tipo infatti lascia libere le parti di pattuire qualunque cosa, e quindi è come se non ci fosse.

Dovremo poi noi interpreti di fatto inventare come il meccanismo bonus malus opererà nel caso di cessione del contratto, cessione di azienda, o semplicemente stipula d’un nuovo contratto con un diverso assicuratore. Sarà necessario un “attestato di rischio”? Rilasciato da chi? Con quale contenuto e con quale efficacia? Basato su quale periodo di osservazione? E se non viene rilasciato? E l’assicurato avrà diritto di pretenderlo? Ed entro quali termini? A tutti questi quesiti credo che si debba rispondere in un modo soltanto: nel silenzio della legge, le parti sono libere di pattuire quel che vogliono.

E) Il processo
La legge 24/17 accorda al paziente danneggiato da un atto medico l’azione diretta nei confronti dell’assicuratore del medico o dell’ospedale (sempre che un assicuratore vi sia, per quanto detto). Ed ecco subito un altro problema.

L’art. 12, comma 6, della legge, stabilisce che le norme sull’azione diretta nei confronti dell’assicuratore si applicano “a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto con il quale sono determinati i requisiti minimi delle polizze assicurative”. Come già detto, il d.m. 232/23 è stato pubblica to sulla Gazzetta Ufficiale del 1° marzo, e quindi è entrato in vigore il 16 marzo 2024.

Tuttavia, l’art. 18 del suddetto decreto accorda alle imprese assicuratrici due anni di tempo per “adeguare i contratti di assicurazione in conformità ai requisiti minimi di cui al presente decreto”.

Il decreto non chiarisce se questi “contratti di assicurazione” siano soltanto quelli già stipulati, e ciò genera una infinità di problemi. Se si opta per la soluzione affermativa, a partire dal 16 marzo i nuovi contratti devono essere conformi al decreto, e quindi nel caso di danni causati da soggetto assicurato con un “nuovo” contratto, la vittima avrà azione diretta nei confronti dell’assicuratore. Ma poiché i contratti già in essere potranno restare invariati fino al 2026, a seguire questa interpretazione si produrrà un effetto sommamente iniquo.

Danni causati nello stesso momento infatti saranno alcuni tutelabili con l’azione diretta, ed altri no. Se invece si opta per la soluzione negativa (e cioè ritenere che le nuove norme si applicano a partire dal 16.3.2026), ciò vorrà dire che per due anni le imprese assicuratrici possono continuare a stipulare contratti difformi dalle prescrizioni del decreto: ed in questo caso verrebbe privata di senso la regola di cui all’art. 12 l. 24/17, secondo cui le norme sull’azione diretta si applicano a partire dall’entrata in vigore del decreto ministeriale attuativo.

E.1) L’art. 8 del decreto dà attuazione al principio (già previsto dall’art, 12, comma 2, della l. 24/17: una delle norme più scombiccherate dell’intero testo) che potremmo definire dell’ “inopponibilità relativa delle eccezioni”, da parte dell’assicuratore convenuto in giudizio dalla vittima con l’azione diretta.

La legge infatti, dopo avere sancito tale principio, ha delegato il ministro a stabilire quali eccezioni fossero opponibili e quali no: e il decreto ha attuato tale delega stabilendo l’inopponibilità delle seguenti eccezioni:

a) eccezione di inoperatività della polizza, per essere il danno derivato da attività estranee alla copertura assicurativa;
b) eccezione di inoperatività della polizza per superamento dei limiti e delle regole temporali di efficacia della stessa;
c) eccezione di esistenza d’una franchigia;
d) eccezione di mancato pagamento del premio.

Queste eccezioni sono opponibili dall’assicuratore al danneggiato solo “previa sottoscrizione di clausola contrattuale da approvare specificamente per iscritto”. E qui comincio davvero a non capire più nulla.

Iniziamo col rilevare che per come è scritta la norma (un perfetto esempio di malgoverno della buona sintassi) essa può essere intesa in due modi:

-) o nel senso che in tanto l’assicuratore può opporre le eccezioni ivi previste al danneggiato, in quanto le clausole che ne rappresentano il fatto costitutivo siano state sottoscritte dall’assicurato;

-) oppure nel senso che le clausole che rappresentano il fatto costitutivo delle eccezioni elencate dall’art. 8 sono nulle se non sottoscritte.

Nel primo caso l’assicuratore non può opporre l’eccezione, ma la clausola è valida; nel secondo caso, non solo l’assicuratore non potrà opporre l’eccezione, ma la clausola sarà anche invalida. Ora, la prima ipotesi deve scartarsi recisamente per la sua irrazionalità. Essa infatti si tradurrebbe in ciò: imporre all’assicurato di autorizzare per iscritto l’assicuratore a rifiutare al terzo un pagamento che già per legge l’assicuratore non era tenuto ad eseguire. Ma anche la seconda interpretazione non è meno problematica.

A volerla seguire, infatti, si impatterebbe nelle seguenti conseguenze, alcune illegittime ed altre paradossali:
a) si introdurrebbero per decreto cause di nullità contrattuali non previste dalla legge, ed in assenza di una delega all’esecutivo;
b) si introdurrebbe un obbligo di sottoscrizione di clausole riproduttive di norme di legge (art. 1901 c.c.);
c) con riferimento all’ipotesi di mancato pagamento del premio, l’inefficacia del contratto è prevista dalle legge (art. 1901 c.c.): non si vede dunque cosa mai le parti dovrebbero sottoscrivere (la legge?);
d) la mancata sottoscrizione d’una clausola (inutilmente) riproduttiva dell’art. 1901 c.c. non potrebbe mai condurre ad una deroga a tale norma;
e) la delimitazione del rischio non è una clausola vessatoria ex art. 1341 c.c. (rinuncio a qualsiasi citazione: il principio è pacifico); sicché a voler pretendere che l’assicurato la sottoscriva, ecco che si modificherebbe per decreto l’art. 1341 c.c., e cioè una norma del codice civile.

E.2) Ma la previsione più straordinaria per lungimiranza, chiarezza, efficienza ed efficacia è il comma secondo dell’art. 6 d.m. 232/23.

Ivi si stabilisce che “resta fermo quanto previsto dall’articolo 38-bis del d.l. 6 novembre 2021, n. 152”. L’art. 38 bis d.l. 152/21 stabilisce che le assicurazioni stipulate dai medici ai sensi della l. 24/17 (quelle di cui ci stiamo occupando) “sono inefficaci” se l’assicurato non ha assolto almeno il 70% dell’obbligo formativo “nell’ultimo triennio utile”.

A parte i dubbi sulla nozione di “ultimo triennio utile”, che ci porterebbe troppo lontano, l’effetto della norma è questo: che essa fa dipendere la maggiore o minore tutela del danneggiato non da una condotta negligente sua, ma dalla condotta negligente del medico.

Il medico non si aggiorna, l’assicurazione è inefficace, il danneggiato non ha più l’azione diretta (e nemmeno la surrogatoria ex art. 2900 c.c., poiché se l’assicurazione è inefficace nemmeno l’assicurato ha crediti di sorta da far valere contro l’assicuratore). S

i tratta evidentemente d’una misura di coazione indiretta verso i medici per indurli ad adempiere gli obblighi formativi, ma è una previsione totalmente incoerente con l’introduzione dell’azione diretta.

Questa, infatti, è una misura di tutela della vittima che affianca all’obbligazione aquiliana (scaturente dal fatto illecito e vantata nei confronti del medico ospedaliero) una diversa obbligazione, scaturente dalla legge e vantata nei confronti dell’assicuratore.

E se le due obbligazioni sono diverse, ancorché legate da solidarietà, è difficile spiegare come una condotta del medico diversa dall’esecuzione materiale di cura e diagnosi possa incidere sul credito della vittima verso l’assicuratore. Vi è dunque una palese incoerenza tra accordare alla vittima in linea generale l’azione diretta, per poi negargliela se ha la doppia sventura di incappare non solo in un medico emulo di Guido Tersilli, ma che per di più non andava neanche ai congressi.

5. Conclusioni
La giurisprudenza in genere è molto rigorosa nei confronti di medici ed ospedali convenuti in giudizio per casi di malpractice. Per di più, i risarcimenti liquidati in Italia per i danni non patrimoniali sono i più larghi d’Europa.

Tutta la l. 24/17, fatta la tara delle roboanti fanfare con cui è stata salutata, si ridusse a ciò: un sostanziale esonero di responsabilità per i medici pubblici dipendenti, un sostanziale aggravio di responsabilità (e costi) per le strutture, in particolare quelle pubbliche. Va da sé che un simile contesto è ben poco appetibile per un assicuratore della responsabilità civile: ed infatti da anni la raccolta di questo tipo di rischi si è andata rarefacendo8.

Molti assicuratori hanno lasciato questo settore, e quelli che son rimasti hanno introdotto claims made, franchigie milionarie e diritti di recesso varii. Il d.m. 232/23 introduce ora nuove e più stringenti regole per l’assicuratore: l’azione diretta, la pregressa decennale, la postuma decennale.

Se poi si condivide l’interpretazione qui sostenuta, secondo cui l’art. 11 della l. 24/17 consente all’assicurato di evitare gli effetti della claims made denunciando il sinistro di sua iniziativa, deve concludersi che l’appetibilità di questo tipo di rischi per l’assicuratore è ulteriormente scemata.

E poiché non mi risulta che tra gli assicuratori ci siano molti seguaci di Leopold Von Masoch, temo che – rebus sic stantibus – di contratti stipulati in esecuzione del d.m. 232/23 ne vedremo ben pochi.


1 Qui e nel resto del presente articolo continuerò a usare il lemma “ospedali”, più discorsivo e familiare, in luogo della dizione normativa “strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche
e private”. Va da sé che con quel lemma mi riferirò ad ospedali, policlinici universitari, cliniche private, residenze protette, ambulatori, manicomi, ospizi e brefotrofi.
2 Per una disamina delle molte criticità di questa legge superficiale nei contenuti e sgrammaticata nella forma sia consentito il rinvio a Rossetti, La responsabilità medica, in
Treccani – Il libro dell’anno del diritto, Roma 2018, pp. 53 e ss.; per una disamina della legge sotto il profilo assicurativo sia consentito il rinvio a Rossetti, La riforma della responsabilità medica. L’assicurazione, in Questione giustizia, 2018, fasc. 1, pp. 167 e ss..
3 L’azione diretta, infatti, è consentita dall’art. 12 della l. 24/17 nei confronti dell’assicuratore “che presta la copertura assicurativa di cui all’art. 10” della stessa legge, e cioè che ha stipulato il contratto conforme ai requisiti della legge stessa. Sicché, fino a quando è mancato il decreto attuativo di fissazione dei suddetti requisiti, l’azione diretta non è stata possibile.
4 Si consideri, a mo’ d’esempio, che la legge 24.12.1969 n. 990, la quale introdusse una ben più complessa disciplina per l’assicurazione della r.c.a., previde un tempo massimo
di attuazione di un anno (artt. 42 e 43). Per non parlare d’una riforma epocale come quella dell’introduzione dell’euro, per la quale fu previsto un periodo di transizione (doppia circolazione della lira e dell’euro) di soli due mesi (d.l. 25 settembre 2001, n. 350).
5 Qualcuno la chiama “autoassicurazione”, con buona pace della lingua italiana e della logica. Se infatti il proprietario d’un appartamento invece di locarlo a terzi ci abitasse, a
nessuno verrebbe in mente di dire che ha fatto una “autolocazione”; allo stesso modo, se decidessi di tinteggiare da me il tinello, a nessuno verrebbe in mente di dire che ho
fatto un “autoappalto”.
6 Né si pensi che quest’ultima sia ipotesi irrealizzabile. Se il danno è stato commesso da una équipe, ad esempio, in teoria tutti i membri di essa ne risponderanno in solido.
Pertanto se il danneggiato convenisse in giudizio o comunque interrompesse la prescrizione nei confronti di uno dei coobbligati, tale atto avrebbe effetto nei confronti anche di tutti gli altri (art. 1310, comma primo, c.c.). Ecco dunque che costoro, ignari dell’avvenuta interruzione della prescrizione, potrebbero trovarsi esposti ad una richiesta risarcitoria anche dopo molti anni dalla commissione del fatto illecito.
7 Su questo punto non posso che inchinarmi alla volontà della legge, che eleva al rango di “rischio” non già la causazione del danno da parte dell’assicurato, ma l’inoltro della richiesta risarcitoria da parte del danneggiato. In realtà questo è un rischio solo putativo, perché l’obbligazione risarcitoria sorge nel patrimonio dell’assicurato quando egli causa il danno, non quando gliene venga richiesto il risarcimento. Ma si sa: bastano “tre paroline
del legislatore, ed intere biblioteche giuridiche divengono cartaccia” [è la proverbiale maledizione che Julius Hermann Von Kirchmann (“Drei berichtigende Worte des Gesetzgebers und ganze Bibliotheken warden zu Makulatur”), lanciata nella sua opera più famosa, Die Wertlosigkeit der Jurisprudenz als Wissenschaft, 1847 (trad. it. La mancanza
di valore della giurisprudenza come scienza, Pisa 1942)].
8 Si veda il quaderno ANIA Trend – Focus r.c. sanitaria, Roma 2017, leggibile sul sito web www.ania.it/documents/35135/53795/Ania-Trends-Focus-RC-Sanitaria.pdf/6a0f70f9-90cf-2572-aca8-4ceed26f7bab?version=1.0&t=1573729011189.


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