Paola Valentini
Negli investimenti sostenibili uno dei segmenti che cresce con maggior rapidità è quello che riguarda la parità di genere. Anche in finanza, come d’altra parte anche in tanti altri settori della società, l’universo femminile non è molto rappresentato o per lo meno non lo è come quello maschile. I motivi sono noti a tutti e la pandemia ha accentuato ancora di più il gap, nonostante gli sforzi fatti a livello politico e sociale da anni per ottenere un maggiore equilibrio. E’ stato coniato tempo fa anche un termine, Womenomics, nato nel 1999 da uno studio pubblicato da Goldman Sachs. «Il gruppo di analiste sul Giappone dell’investment bank aveva infatti redatto uno report, intitolato Womenomics: buy the female economy, con l’intento di mostrare che i consumi femminili nel Paese avrebbero potuto essere una forza importante per la debole economia giapponese. Oltre a segnalare società che potevano beneficiare dei consumi femminili o erano attive nell’assunzione di donne, lo studio mostrava che un aumento della forza lavoro femminile avrebbe potuto generare un incremento del pil reale del Giappone dal 2,2 al 2,5%», ricorda Fabiola Banfi, direttore di Valori asset Management. Il termine venne poi ripreso nel 2012 dall’ex primo ministro giapponese Shinzo Abe che fece di Womenomics uno dei pilastri principali delle riforme introdotte dal suo governo.

«Dalla pubblicazione dello studio, la partecipazione femminile nel mondo del lavoro giapponese è cresciuta del 71%. Venti anni dopo, lo stesso gruppo di analiste ha pubblicato un nuovo studio in cui stima che la chiusura del gender gap lavorativo in Giappone potrebbe aumentare il pil del Paese del 10%», aggiunge Banfi. Anche in Italia c’è molta strada da fare. Nei giorni scorsi Dbrs Morningstar ha ricordato che il Paese ha il tasso femminile di partecipazione al lavoro più basso della media Ue dal 2014 e a ciò contribuisce «un numero insufficiente di asili nido e scuole dell’infanzia». Negli ultimi 20 anni la quota di occupazione delle donne in Ue si è sempre attestata oltre il 60%, mentre l’Italia è rimasta sempre sotto al 60% ed è scesa al 56,5% nel terzo trimestre del 2021, un dato che la fa sfigurare ad esempio rispetto al Portogallo (73,6%) ed è considerevolmente peggiore rispetto a Svezia e Paesi Bassi, entrambi con tassi l’81,4%, i più alti nell’Ue. «Questa situazione limita il potenziale del pil del Paese e riflette in gran parte un’offerta inadeguata di servizi educativi e un’infrastruttura educativa anziana. Ma è anche lo specchio di un’istruzione pubblica che non fornisce a molti giovani le competenze necessarie per il lavoro», avverte Dbrs Morningstar.Le speranze sono ora riposte nel budget da 17,6 miliardi di euro che il Piano nazionale per la ripresa e la resilienza dell’Italia (Pnrr) dedica al sistema di istruzione pubblica. Di questo importo, 4,6 miliardi di euro sono destinati a rafforzare l’offerta di servizi educativi (scuole materne e preprimarie) per i bambini fino a sei anni, aumentando la copertura geografica. Il governo prevede inoltre di prolungare l’orario scolastico potenziando e realizzando impianti sportivi e mense con 700 milioni di euro. Queste iniziative fanno ben sperare per la partecipazione al lavoro femminile, anche se il loro impatto richiederà tempo. Secondo il governo, il piano complessivo sull’istruzione dovrebbe contribuire a un tasso di occupazione femminile superiore dello 0,5% rispetto a uno scenario senza piano entro il 2024-2026. «Tuttavia, il miglioramento dipenderà dal successo delle procedure di appalto degli investimenti nel 2022-2023 a cui seguiranno lavori di costruzione in gran parte solo dal 2024 e da una decisione delle donne a favore dell’inserimento nel mercato del lavoro», spiega Dbrs Morningstar.

Resta ancora molto strada da fare soprattutto per quanto riguarda la presenza di donne in ruoli direttivi. «Se analizziamo le società presenti negli indici Stoxx 600 e S&P 500 notiamo che gli uomini sono sempre più numerosi delle donne quando si tratta di posizioni apicali. Si nota anche che il gap salariale diventa più ampio a mano a mano che si avanza con l’età quando, in genere, ci si sposta verso ruoli più importanti all’interno dell’azienda. A volte, è interessante vedere come in società che producono o commercializzano prodotti rivolti alle donne, i manager siano tutti uomini», aggiunge Fabi. Negli ultimi anni, il numero delle donne nei cda delle aziende è aumentato grazie soprattutto alla pressione dell’opinione pubblica e delle società di asset management che, in qualità di azioniste attraverso i fondi, spingono le società quotate ad inserire più quote rosa nei board considerando che ciò possa portare a decisioni migliori a favore degli investitori.

«Se pensiamo che, secondo uno studio Nielsen, l’89% delle donne partecipa attivamente agli acquisti quotidiani rispetto al solo 41% degli uomini, possiamo solo immaginare quale sia la loro importanza nelle scelte e l’impatto che hanno sui risultati delle società nel lungo termine. Diventa, quindi, sempre più importante la diversità di pensiero anche all’interno dei consigli di amministrazione che decidono le strategie delle aziende», aggiunge Banfi. In base allo studio Credit Suisse Gender condotto su 3 mila società quotate in tutto il mondo, il numero di ceo donna a livello globale è costantemente salito negli ultimi anni ma resta ancora basso al 5,5% nel 2021. L’Italia ha un dato sopra la media, il 10%, di ad donne anche grazie ai provvedimenti normativi (legge Golfo-Mosca sulle quote rosa) che di fatto hanno imposto una rappresentanza femminile minima nei cda. Anche sul fronte della consulenza finanziaria nel Paese il mestiere di banker attira sempre più donne che però restano in minoranza: l’Anasf rileva che la percentuale di consulenti donne è salita dal 16,4% del 2011 a oltre il 22% di fine 2021.

Una curiosa analisi di Morningstar ha mostrato come nel Regno Unito ci siano più gestori uomini che si chiamano Dave che donne. Su 14.96 fondi, analizzati il 7,2% è gestito da un Dave, rispetto al 7,01% gestito da donne. Eppure un report di Fidelity Investment sui propri clienti ha mostrato che in media le investitrici hanno avuto performance positive migliori di 0,4 punti percentuali nell’orizzonte a dieci anni (tra inizio 2011 e fine 2020) rispetto agli uomini. «La differenza spesso data dal fatto che le donne tendono ad essere più conservative e a mettere in atto strategie di buy-and-hold, mentre gli uomini tendono più a fare trading aumentando così anche i costi in cui incorrono», sottolinea Banfi, «nella realtà, al di là di chi sia più bravo, la diversità all’interno di un team di gestione può favorire migliori idee di investimento e di conseguenza migliori risultati. Non si tratta solo di riempire una casella o di calcolare quante donne sono presenti in un’azienda perché se la cultura aziendale non è inclusiva, non importa quanto sia diversa la forza lavoro». Per esporre i portafogli ai temi dell’equilibrio di genere sul mercato italiano ci sono alcuni fondi ed Etf di tipo Esg (si veda tabella). I primi includono comparti di Nordea, RobecoSam e Anima. La mancanza di rendimenti a un anno per alcuni di loro segnala che sono nati da meno di 12 mesi, mentre soltanto due presentano le performance a tre anni.

L’ultimo è stato lanciato un mese fa da Fineco Asset Management, il Diversity and Inclusion, azionario globale gestito in delega da M&G che investe in società con strategie che prevedono diversità di genere, etnica o che operano a favore dell’inclusione sociale. «Le aziende che lavorano per colmare il divario tra generi ed etnie hanno di norma risultati più soddisfacenti, a conferma che diversità e inclusione hanno anche risvolti economici. Stimolare la transizione verso una società più equa e più accessibile per tutti è una priorità», commenta Fabio Melisso, ceo di Fineco Am.

Per Andrea Orsi, country head Italia e Grecia di M&G «investire in aziende che eccellono nelle politiche di inclusione sociale e diversity ha anche una ragione economica: le società quotate con i più alti tassi di diversità nei cda vantano prestazioni migliori sul mercato azionario». Tra le altre sgr che offrono fondi che puntano sulle quote rosa ci sono Axa Wf Framlington (Social Progress) e il Mirova (Women Leaders Equity), cui si aggiungono gli Etf Ubs Global Gender Equality e Lyxor Global Gender Equality. «La crescente popolarità di questi fondi unita all’aumento di politiche di engagement dei gestori spingerà molte società quotate a rivedere le politiche sulla gender gap e a mettere in atto azioni per migliorare la situazione», prevede Banfi che aggiunge, visti i recenti ribassi delle borse: «il momento può rappresentare buon punto di entrata per prendere posizione in ottica di medio periodo», considerando comunque che si tratta di prodotti azionari e quindi una certa dose di volatilità dei rendimenti va messa in conto, soprattutto in una fase complessa sui mercati finanziari globali come quella attuale. (riproduzione riservata)
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