Gabriele Capolino
Una lista part-time, quella presentata da Franco Gaetano Caltagirone per la prossima assemblea delle Generali, almeno a giudicare dalle posizioni con cui sono stati indicati i vari candidati. Infatti, le due posizioni chiave, quella dei prospettici presidente e amministratore delegato, sono relegate al quinto e sesto posto della lista. In caso di sconfitta, alla lista Caltagirone dovrebbero andare al massimo quattro posti, per cui il part-time di Claudio Costamagna e di Luciano Cirinà si considererebbe concluso, e a battersi insieme a Caltagirone nel prossimo consiglio resterebbero solo Flavio Cattaneo (che era già stato nominato nel 2014 nel consiglio, al posto di Paolo Scaroni), la professoressa Marina Brogi e la manager Roberta Neri. D’altra parte, chiedere a Costamagna di fare il consigliere di minoranza forse era un po’ troppo, ed eventuali dimissioni post nomina non sarebbero state eleganti da dare. Per Cirinà, poi, il contratto di lavoro dipendente come dirigente dell’est Europa delle Generali sarebbe una complicazione in più da gestire in caso di nomina di minoranza. Quindi: se si vince bene, se non si vince grazie e arrivederci.

Quella che si prepara per il 29 aprile, giorno dell’assemblea (in remoto) delle Generali è un confronto tra una lista per lo più romanocentrica con una per lo più esterofila. Ma al di là della cronaca che coprirà il cammino da qui al 29 aprile, la vicenda Generali deve essere attentamente analizzata dai legislatori e dalla Consob, perché segna il tramonto di un meccanismo di elezione dei consigli di amministrazione ormai superato dai fatti.

La lista degli amministratori di minoranza (o dell’amministratore di minoranza, visto che quasi in tutti gli statuti societari ne è previsto solo uno, il minimo previsto dalla legge), fu introdotta negli anni 90 per le società pubbliche in via di privatizzazione, al fine di rassicurare gli investitori esteri interessati ad acquisirne partecipazioni. Il dubbio era che alla fine lo Stato, uscito dalla porta dell’azionariato, rientrasse dalla finestra della governance. Uno o più amministratori indipendenti di minoranza avrebbero esercitato il ruolo di cani da guardia di una governance moderna e aperta alle istanze degli investitori istituzionali. Con la legge sul risparmio del 2004 quella disposizione fu allargata a tutte le società quotate. Da allora, progressivamente, il risparmio gestito si è organizzato, per lo più sotto l’egida di Assogestioni (attualmente guidata da Tommaso Corcos, ad di Fideuram-Intesa Sanpaolo Private Banking ) e ha presentato liste di minoranza proprio a questo scopo.

Una volta allargato l’obbligo a tutte le società quotate, però, il rapporto tra investitori professionali e management è diventato un po’ controverso. Se infatti i gestori investono nella società è perché hanno fiducia nelle capacità del management: al momento dell’assemblea per una loro eventuale riconferma dovrebbero quindi votare a favore. Se invece il loro investimento non avesse l’esito sperato, potrebbero votare per un’eventuale lista alternativa o, come hanno sempre fatto, votare con i piedi, ovvero alzarsi e uscire dall’azionariato vendendo le loro azioni.

La presenza della lista di minoranza ha introdotto un diverso tipo di rapporto. I gestori, anche quelli che si fidano del management (altrimenti perché tenere la posizione?) hanno finito per convogliare i loro voti sulla lista di Assogestioni, per avere uno o più esponenti indipendenti in consiglio, che rimarcassero l’importanza dei soci rappresentati dal risparmio gestito. Tradotto: fidarsi del presidente e dell’amministratore delegato è bene, ma non fidarsi e quindi mettere qualcuno alle loro calcagna, è meglio.

A modificare le cose è stata poi l’introduzione anche in Italia della cosiddetta lista del consiglio di amministrazione. In pratica, soprattutto nelle società in cui non c’è un azionista stabile di grande peso, è il Consiglio stesso che propone ai soci di rinnovare l’organismo di governo con una lista ad hoc. Tradotto: cari soci, se pensate che abbiamo operato bene, questi sono i nomi con cui pensiamo di operare ancora meglio per i prossimi tre anni.

A fine 2020 (dati Consob) negli statuti di 52 società sulle 300 quotate alla borsa principale, è prevista la possibilità che il cda presenti tale lista. In Europa è questa la prassi dominante per i candidati nelle assemblee delle società di grandi dimensioni: 45 dei 50 componenti dell’indice Euro Stoxx 50 l’hanno adottata.

La lista del cda, nelle intenzioni, è rappresentativa dell’intero azionariato, istituzionali compresi: lo indica il fatto che la maggioranza degli amministratori si dichiara indipendente. Nel caso della lista del cda delle Generali, per esempio, gli indipendenti sono 10 su 13. Nel caso della lista Caltagirone, quella concorrente, 11 su 13 sono dichiarati indipendenti.

Ma proprio la presenza massiccia di amministratori indipendenti nelle due liste finisce per realizzare lo scopo per cui le liste di minoranza sono nate, quello di assicurare un certo numero di spiriti liberi nei board, in modo da tenere conto delle istanze di tutti i soci. Che bisogno allora c’è, da parte dei gestori e rappresentanti del risparmio gestito, di presentare una lista ulteriore?

Come già riportato da Milano Finanza, dato il particolare statuto di Generali, se Assogestioni presentasse una terza lista ma non raggiungesse la soglia minima del 5% del capitale sociale, allora la lista perdente delle due rimaste avrebbe quattro posti in consiglio. Se invece Assogestioni o altri non presentassero un’ulteriore lista o la presentasse superando il 5%, allora il soccombente avrebbe comunque tre posti. Questo dubbio spiega il perché del quinto e sesto posto in lista di Costamagna e Cirinà: per non correre rischi di essere comunque presenti da perdenti. Del resto Assogestioni non è nuova a decisioni del genere: nel 2012 decise di non presentare i suoi candidati all’assemblea di Impregilo che vedeva lo scontro tra la lista di Salini e quella di Mediobanca, proprio per consentire agli investitori istituzionali di schierarsi liberamente. Alla fine, l’outsider Salini vinse sostenuto proprio da uno di questi, il fondo Amber. Allo stesso modo si comportò l’associazione nel 2018, quando decise di non presentare liste per il rinnovo delle cariche di Tim dove si confrontavano aspramente Vivendi e Elliott.

Non è chiaro quale decisione stiano maturando in seno ad Assogestioni. Il silenzio è dovuto verosimilmente al fatto che il 31 marzo dovrà essere indicato un nuovo presidente al posto di Tommaso Corcos, che avendo già operato in due mandati non può più ripresentarsi. E’ ragionevole pensare che quindi la decisione verrà presa dalla nuove governance dell’associazione.

Ma non è solo l’introduzione del voto di lista a rendere obsoleta l’attuale normativa sui meccanismi di elezione del consiglio, che peraltro così com’è rappresenta un unicum nei paesi occidentali. Negli altri Paesi, le nomine del board sono decise in assemblea chiedendo ai soci di pronunciarsi su ciascun candidato, non su una lista, e quelli che ottengono il maggior numero di voti vengono eletti. E’ chiaro che, se così fosse, una solida maggioranza conquisterebbe tutti i posti in cda. Ma, come si vede, l’evoluzione della governance sta spingendo i grandi gruppi ad aumentare la quota degli indipendenti nei board, per cui il problema sta risolvendosi da solo. Per evitare tutte queste incongruenze, occorre dunque che in Parlamento e in Consob si faccia un serio tagliando al Tuf e alle norme relative all’elezione del consiglio nelle quotate. Dal 1998 a oggi, di acqua ne è passata sotto i ponti della governance. (riproduzione riservata)
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