di Angelo De Mattia
In questi giorni allo statuto della Delfin, che controlla gli asset della famiglia Del Vecchio (comprese le partecipazioni in Mediobanca, Generali e Unicredit) è stata apportata una modifica per disciplinare la successione al patron Leonardo qualora si verifichino determinate circostanze per le quali egli lasci il vertice della società. È una decisione che obbedisce a esigenze di chiarezza e stabilità e che elimina uno dei tanti idola fori comparsi nei mesi scorsi per dimostrare una presunta indeterminatezza sul futuro, in particolare, della partecipazione in Mediobanca, oggi al 13%: quindi gli altrettanto presunti rischi di un aumento dell’interessenza al 20%, regolarmente autorizzato però dalla Vigilanza unica.

Nelle ultime settimane anche i rumores e l’attivismo anti-gallico si sono spenti per la loro infondatezza e inconsistenza. Subito dopo è ritornata la riflessione sulla possibile evoluzione del rapporto Mediobanca-Generali con la prima al 13% circa del Leone di Trieste e con Del Vecchio per ora, come si è detto, al 13% di Mediobanca, al 4% circa delle Generali e al 2% di Unicredit.

Altro protagonista, forse involontario, è Francesco Gaetano Caltagirone, che delle Generali è il secondo azionista, dopo Mediobanca, con oltre il 5%. Si fronteggiano in questa che per il momento è solo un’ipotesi di maggiore convergenza fino a un’integrazione Mediobanca-Generali e un’altra che prefigura una forma di aggregazione sui generis a tre, Unicredit-Mediobanca-Generali, con il primo istituto che ritornerebbe in campo dopo la non remota dismissione dell’intera partecipazione nella banca di Piazzetta Cuccia. Alcuni pensano che i giochi potrebbero essere avviati già dalle prossime assemblee di bilancio (di Unicredit, con l’insediamento di Andrea Orcel, e di Generali) in previsione del rinnovo degli organi del Leone nel prossimo anno.

Sembra quasi che alcuni diano per scontato che un’aggregazione consegua automaticamente sorti magnifiche e progressive. Ma certamente una riflessione del genere non sfugge a un personaggio qual è Del Vecchio, che si è fatto da sé fino ad arrivare a conseguire una ricchezza di 20-25 miliardi di euro. Stranamente quel che continua a mancare nelle analisi degli osservatori è il punctum dolens: la necessità che le Generali riflettano sull’ipotesi di un aumento di capitale, la cui esigenza era avvertita e dichiarata oltre 15 anni fa da Antoine Bernheim, uno degli storici presidenti della multinazionale delle assicurazioni.

Anche per Mediobanca difettano valutazioni sulle strategie, sulle trasformazioni intervenute nei decenni da istituto tricefalo – intermediario a medio e lungo termine, merchant bank, holding di partecipazioni, favorito da una legge speciale – al nuovo equilibrio dell’oggi, lontano dai fasti del passato, con un polo nel campo del credito al consumo. Del Vecchio però ha prospettato qualche idea sull’evoluzione di Mediobanca – anche se si tratta di posizioni in fieri – e sulle Generali perché privilegino la storica funzione assicurativa e con essa combattano la battaglia della competizione. Una catena eventualmente comprendente l’Unicredit renderebbe ancor più essenziale il chiarimento sulle strategie e sull’operatività, sulla distribuzione delle funzioni e sulle integrazioni.

Insomma, siamo in presenza di realtà che possono mettersi in movimento o che, al contrario, possono rimanere anche a lungo in surplace se i programmi non fossero chiari, le intese per l’una o per l’altra soluzione tardassero, riprendessero i sospetti dimostratosi infondati da parte delle autorità di Vigilanza dei due settori, non si svolgesse un’azione di impulso rispettosa delle autonomie degli azionisti ma anche determinata a tutelare la stabilità, la sana e prudente gestione, il consumatore. E ciò con un’appropriata iniziativa di moral suasion piuttosto che porre eventuali vincoli all’esercizio dei diritti dei soci a proposito delle azioni di Delfin in Mediobanca; è sulle strategie e sulle prospettive che bisogna intervenire. Un’eventuale limitazione di una partecipazione con l’obiettivo di non far esercitare una parte dei diritti dell’azionista, che vedrebbe limitate le sue possibilità alla sola gestione finanziaria e non potrebbe arrivare a coerenti posizioni di rilievo nell’azionariato, presterebbe il fianco a gravi censure sul piano della legittimità. (riproduzione riservata)

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