Con la Sfdr parte la lotta Ue al greenwashing. Le case di gestione dovranno rivedere i prodotti evitando semplificazioni banali tra green e non. Parla Sandri, country head BlackRock Italia

di Nicola Carosielli
Che sia davvero arrivata la stretta verde? Il piano dei regolatori europei sembra una conferma a chiare lettere. Mercoledì 10 marzo è entrato in vigore il nuovo regolamento Sfdr (Sustainable Finance Disclosure Regulation), primo passo ufficiale dell’Ue nel tentativo di scoraggiare il fenomeno del greenwashing tramite l’imposizione di obblighi di disclosure in capo a gestori e attori finanziari in genere: d’ora in avanti dovranno informare gli investitori finali sui rischi per la sostenibilità. Uno dei primi a comunicare l’integrazione di tale normativa è stato BlackRock, il colosso del risparmio gestito che in una lettera indirizzata ai clienti, di cui ha dato conto MF-Milano Finanza l’11 marzo, ha stabilito che il 70% dei fondi che lancerà o riposizionerà in Europa nel 2021 sarà sostenibile, ovvero prodotti appartenenti agli articoli 8 e 9 della normativa.

Un passo in avanti che però richiederà grandi sforzi a tutti gli attori coinvolti, non solo perché la sostenibilità rappresenta un impegno economico di svariate centinaia di milioni di dollari per gli asset manager. Giovanni Sandri, country head di BlackRock Italia, individua vari temi sui quali occorrerà riflettere accuratamente alla luce delle nuovi disposizioni. In primis, evitare l’eccessiva semplificazione tra prodotto sostenibile (cosiddetti articoli 8 e 9) e prodotto meno legato a tale ambito (individuato nell’articolo 6): «Al di là dei numeri che ogni operatore comunicherà, sarà molto importante non semplificare tutta l’impostazione pensata dai regolatori facendo diventare una corsa a chi percorre i 100 metri più rapidamente». Dietro la Sfdr, sottolinea Sandri, «esistono delle complessità strutturali forti. A questo proposito è bene ricordare che le regole di livello 1 (quelle entrate in vigore il 10 marzo, ndr) non sono particolarmente prescrittive, per cui è possibile che vi sarà una certa divergenza negli approcci da parte degli operatori perché è insito un margine d’interpretazione nel modo in cui principi e regole di livello 1 sono adottate».

Anche per questo motivo, dunque, non bisognerà dividere eccessivamente il mondo in due, con prodotti finanziari articoli 8 e 9 nelle vesti dei buoni, demonizzando eccessivamente quelli appartenenti all’articolo 6. «Ci attendiamo che anche grazie alla Sfdr gli investimenti in articolo 6 di fatto siano destinati a diminuire (anche come parte del processo di transizione già avviato da tempo), ma senza dimenticare che le economie globali sono ancora fortemente carbon intensive, il che non può cambiare da un giorno all’altro solo con l’entrata in vigore della regolamentazione». Bisogna, infatti, tenere a mente che anche quando si parla di investimenti sostenibili, questi fondi sono legati a catene produttive che non sempre adottano criteri cosiddetti sostenibili, ma senza le quali non potrebbero esistere. Uno degli esempi più immediati potrebbe essere quello legato al tema della mobilità elettrica: senza il tanto vituperato settore minerario che estrae i minerali, le batterie installate a bordo degli electric vehicle non potrebbero essere prodotte. Insomma «occorre guardare tutto nella sua complessità», chiosa Sandri.

C’è poi un altro tema, altrettanto nevralgico, che riguarda la disponibilità e l’analisi dei dati. Indispensabile, sostiene Sandri, «affinché non si perda il buon senso che ha questa regolamentazione, teso alla trasparenza e quindi alla spinta verso un processo molto più strutturale». «Un operatore come noi, che deve valutare ogni singolo investimento e fornisce al cliente un prodotto che può essere articolo 6, 8 o 9, deve avere informazioni di qualità sull’azienda su cui investe. Sappiamo quanto sia fondamentale per l’asset management avere accesso a informazioni accurate e sufficientemente granulari che permettano di selezionare gli investimenti». Con lo sviluppo dell’esg una nuova dimensione di dati si aggiunge ai processi d’investimento costruiti per decenni su metriche tradizionali. Tali dati, però, osserva il manager, «sono molto complicati da definire perché, semplificando, valutare in maniera quantitativa quanto un business sia sostenibile o non sostenibile è un lavoro complesso». Il ruolo delle case di gestione, in questo senso, diventa quindi importante sia nello spingere le aziende ad adottare standard di reportistica che permettano analisi più accurate del dato sia nello sviluppare internamente nuovi processi che misurino gli impatti dei cambiamenti climatici sul business e li traducano in impatti finanziari.

Tante, dunque, sono le sfide che si parano davanti agli asset manager, chiamati a ripensare le strategie prodotto, ma con il grande beneficio, conclude Sandri, «di offrire più scelta all’investitore finale». (riproduzione riservata)

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